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E' USCITO IL MIO LIBRO "LA DEMOCRAZIA ARANCIONE. STORIA DELL'UCRAINA DALL'INDIPENDENZA ALLE PRESIDENZIALI 2010", LIBRIBIANCHI EDITORE. Parte dei proventi finanzia l'Associazione AnnaViva.

giovedì 30 luglio 2009

MOLDOVA: CALANO I COMUNISTI, GUADAGNANO I LIBERALI. PROBABILE UNA COALIZIONE FILO-OCCIDENTALE.

Dopo i brogli compiuti dai comunisti lo scorso mese di aprile, nella giornata di mercoledì 29 luglio 2009 i cittadini moldavi sono stati chiamati nuovamente alle urne per il rinnovo del parlamento. Il Partito Comunista (PCRM) è rimasto il primo partito con il 45,1%, ma non ha i numeri per scegliere autonomamente il presidente, avendo diritto a soli 48 seggi parlamentari sui 101 totali.

Positivo è il risultato ottenuto dalle opposizioni, che potranno contare su una cospicua rappresentanza pari a 53 seggi. Il Partito Liberal-Democratico ha ottenuto il 16,4% dei consensi, il Partito Liberale il 14,4, il Partito Democratico il 12,5, e la coalizione “Nostra Moldova” (AMN, che ha ripreso il colore arancione in segno di continuità con l’omonima rivoluzione“colorata”, nonviolenta e filoeuropea del 2004 in Ucraina) il 7,4.

A condizionare gran parte dell’elettorato moldavo è stata anche la consapevolezza di scegliere tra l’inizio di un percorso di adesione all’Unione Europea – proposto dai liberali – e il mantenimento di Chisinau sotto la sfera d’influenza di Mosca – supportato dai comunisti.

Il consolidamento dei partiti liberali indica una chiara inversione di tendenza nel Paese più povero d’Europa (escluso il Kosovo), da anni in mano ai comunisti e, di conseguenza, legato alla Russia.

Persino Natalia Morar – una tra le organizzatrici delle proteste contro i brogli elettorali dello scorso aprile, meglio note come “rivoluzione Twitter” – si è detta soddisfatta dell’esito della consultazione, evidenziando come “i comunisti hanno ottenuto una percentuale più bassa rispetto allo scorso aprile, e ciò significa che il Paese vuole cambiamenti. Io stessa spero che qualcosa cambierà”.

In effetti, i liberali si sono presentati alle urne non solo con la promessa di un futuro ingresso nell’Unione Europea, ma anche con un dettagliato programma di riforme socio-economiche funzionale alla modernizzazione del Paese in vista della sua possibile integrazione nella comunità euroatlantica.

Come già riportato, alla luce dei nuovi equilibri i comunisti non sarebbero più in grado di governare da soli. Ecco perché nelle ultime ore si è fatta sempre più forte l’idea che a guidare il Paese possa essere Marian Lupu, leader del Partito Democratico (ed ex membro del Partito Comunista, da cui è fuoriuscito in seguito a continue frizioni con Voronin). Come sottolineato a Radio Free Europe dall’esperto di politica moldava Vlad Lupan, per superare l’empasse politica Lupu potrebbe costituire una coalizione nazionale di governo alleandosi con i due partiti liberali e con “Nostra Moldova”.

“La democrazia e la verità hanno vinto nonostante le innumerevoli difficoltà. Ci sarà una coalizione ampia negli interessi della gente. Un compromesso a cui arriveremo affinché la Moldova sia finalmente governata democraticamente”. Così ha dichiarato il leader del Partito Liberal-Democratico Vlad Filat all’agenzia Reuters dinnanzi al 97% delle sezioni scrutinate.

Tale prospettiva ha incassato anche l’appoggio della vicepresidente del Partito Liberale, Corina Fusu, che ha ricordato come durante la precedente legislatura l’opposizione abbia formato un’alleanza solida e costruttiva, e pertanto quella dei liberali con i democratici sia già una coalizione ben rodata e pronta per governare.
Matteo Cazzulani

martedì 28 luglio 2009

IN BIDEN WE TRUST

Il vicepresidente americano Joe Biden si è recato in Ucraina e Georgia per riequilibrare la politica estera USA nei confronti dei Paesi ex-sovietici.

“Le nuove aperture verso la Russia non saranno a spese di altri Stati. Rifiutiamo la logica delle sfere d’influenza e difendiamo il principio secondo cui ogni Stato democratico è sovrano e gode del diritto a scegliere autonomamente alleati e partner commerciali”. Così ha dichiarato il consigliere della vicepresidenza per la sicurezza nazionale Tony Blinken alla vigilia dell’imbarco di Joe Biden per Kyiv.

In Ucraina e Georgia è crescente la preoccupazione circa il completo disinteresse dell’amministrazione Obama verso le legittime aspirazioni euroatlantiche di Kyiv e Tbilisi, ultimamente sacrificate dalla Casa Bianca in nome di un auspicato miglioramento delle relazioni con Mosca.

Le parole di Obama sul dovuto rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza della Georgia pronunciate durante i colloqui con Putin e Medvedev poco hanno rassicurato l’opinione pubblica di Tbilisi. E la freddezza americana dinnanzi alle ripetute umiliazioni che le armate del Cremlino hanno inflitto al più debole esercito georgiano è una costante iniziata già sotto la presidenza Bush: dapprima, di fronte alla spropositata e violenta invasione della Georgia, reazione militare al tentativo di Tbilisi di riprendere il controllo delle province separatiste di Abkhazja e Ossezia del Sud; successivamente, a seguito del riconoscimento dell’indipendenza dei due territori di cui sopra, accettata solo da Mosca e dal Nicaragua.

A Kyiv invece, la noncuranza occidentale nei confronti dell’ingresso nella NATO e nell’UE è ben spiegata da una metafora apparsa sul settimanale Zerkalo Nedeli, secondo cui “l’Ucraina è una valigia troppo preziosa per disfarsene, ma troppo scomoda da portare”.

Dunque, il viaggio di Biden è fondamentale per riequilibrare l’esito della recente visita di Obama a Mosca. A testimoniarlo, la scelta a Capo della delegazione dello stesso vicepresidente USA, da sempre attento ai destini dei Paesi ex-sovietici. Tra gli intenti della missione, la creazione di un gruppo di lavoro per la sicurezza energetica ed il rinnovo del Patto di Partenariato Strategico già stretto con Kyiv da George Bush, nel quale è chiaramente riportato che “l’integrazione euroatlantica dell’Ucraina e la realizzazione delle riforme necessarie per il suo ingresso nella NATO e nell’UE sono priorità per entrambi i firmatari”.

Nella conferenza stampa congiunta del 21 luglio a Kyiv, il presidente Vyktor Juščenko ha illustrato come la sua preoccupazione ricada in primis sulla sicurezza e sull’integrità territoriale dell’Ucraina “possibile unicamente per mezzo di un’integrazione col mondo euroatlantico”.
Juščenko ha evidenziato come fondamentale per il suo Paese sia l’indipendenza energetica dal vicino russo, invitando a tale pro gli investitori americani a prendere parte al progetto di riforma della rete ucraina di prelievo del gas e, più in generale, di tutto il sistema energetico.
Infine, il Presidente ucraino ha approfittato della presenza di Biden per invitare pubblicamente Barack Obama a Kyiv per una visita di cortesia e di amicizia, possibilmente prima delle prossime elezioni presidenziali in programma per il prossimo inverno.

Da parte sua, Biden ha dichiarato che “gli USA appoggiano un’Ucraina sovrana ed il suo diritto a svolgere elezioni democratiche senza ingerenze dall’estero [ergo dalla Russia, n.d.a.]”, assicurando che il cambio di rotta nelle relazioni con la Russia non avrà ricaduta alcuna sul rapporto con gli amici ucraini. Al contrario, il vice Obama ha espresso il suo convincimento che il reset tra Washington e Mosca sarà un vantaggio anche per Kyiv, poiché da parte americana non mancherà mai l’appoggio ad un’Ucraina più forte, democratica e pienamente integrata nella Comunità euroatlantica.
Affinché tali scopi possano essere realizzati, Biden ha sottolineato come sia necessario un immediato arresto delle conflittualità interne al Parlamento ucraino, attanagliato da continue crisi di governo dovute ad una forte instabilità: “il compromesso non è segno di debolezza, ma dimostrazione di forza e responsabilità politica”.

Con un discorso al parlamento georgiano il 23 luglio, il vicepresidente USA ha rassicurato anche Tbilisi sul fatto che il riavvicinamento con Mosca non pregiudicherà in alcun modo le strette relazioni di amicizia tra i due Paesi. “Capiamo quanto la Georgia aspiri alla NATO. Appoggiamo pienamente questa ambizione e continueremo a lavorare affinché Tbilisi raggiunga tutti gli standard necessari per l’ingresso nell’Alleanza Atlantica”.
Biden ha aggiunto che Washington non intende riconoscere l’indipendenza di Abkhazja ed Ossezia del Sud, invitando tutti gli altri Paesi occidentali a mantenere il medesimo atteggiamento, poiché il riconoscimento della sovranità delle due regioni georgiane separatiste – occupate militarmente da Mosca lo scorso agosto – sarebbe un errore irrimediabile. Così come tuttavia lo sarebbe anche un tentativo armato da parte di Tbilisi di riprenderne il controllo.
Il discorso al parlamento è stato più volte interrotto da calorose ovazioni, in particolare dopo l’affermazione che “gli USA appoggeranno il cammino verso il ritorno di una Georgia sicura, libera, democratica e nuovamente unita”.

Oltre al discorso al Parlamento, Biden ha intrattenuto un colloquio privato con il Presidente Mikheil Saakašvili, il quale, con tono amichevole, ha richiesto al vice Obama di non bloccare le esercitazioni militari NATO in territorio georgiano per l’addestramento dell’esercito di Tbilisi come preteso dal Cremlino , poiché “l’appoggio americano per la Georgia è vitale”.
Soprattutto dinnanzi alle ennesime minacce provenienti da Mosca nei confronti dello Stato caucasico: dal Ministero degli Esteri russo, Grigorij Karasin ha tuonato che “la Russia prenderà contromisure concrete per prevenire il riarmo dell’esercito georgiano”. Nemmeno si trattasse dell’armata napoleonica o della terribile orda di Tamerlano. A tali affermazioni, Saakašvili ha risposto come esse siano la prova che “la Georgia è un Paese sotto attacco e vittima di una parziale occupazione militare [dell’Abkhazja e dell’Ossezia del Sud, n.d.a.] . Ciononostante, la nostra [georgiana, n.d.a.] scelta di approdare nella comunità euroatlantica è irreversibile”.

Infine, il vice presidente USA ha incontrato i leader delle opposizioni georgiane, che negli ultimi mesi hanno richiesto fortemente le dimissioni di Saakašvili, accusato di essere un presidente autoritario ed unico responsabile della disastrosa guerra combattuta contro Mosca. Tra essi, l’ex speaker del Parlamento Nino Burjanadze e l’ambasciatore emerito all’ONU Irakli Alasania.

La due giorni georgiana si è conclusa con una visita ai bambini sfollati dall’Abkhazja e dall’Ossezia del Sud in seguito all’aggressione russa dello scorso agosto.

A Tbilisi, nonostante l’entusiasmo degli esponenti politici, la visita di Biden è stata accolta con distacco dalle gerarchie militari georgiane, in attesa che le promesse del vice Obama di amicizia e di supporto politico e militare si traducano in fatti concreti.

Una speranza condivisa, per non abbandonare tra gli artigli dell’orso russo un popolo a noi molto più vicino sul piano culturale di quanto si pensi. Contrariamente a quanto fatto negli ultimi mesi dagli Stati della Vecchia Europa, totalmente succubi del Cremlino per via della cronica dipendenza energetica.
Aspettando un’Europa finalmente forte ed unita in politica estera, Tbilisi e Kyiv non hanno che sperare in Washington per liberarsi definitivamente dall’imperialismo russo e per entrare nella tanto legittimamente ambita comunità euroatlantica insieme con gli altri Stati liberi e democratici.
Matteo Cazzulani

sabato 25 luglio 2009

MOSCA: ARRESTATO L’ORGANIZZATORE DEL COMIZIO IN ONORE DELLA ESTEMIROVA

Mentre a Milano mercoledì 22 luglio un centinaio di persone ha potuto riunirsi per rendere omaggio a Natal’ja Estemirova, in Russia il giorno successivo la milicija è intervenuta per sospendere una simile dimostrazione pubblica, arrestandone l’organizzatore.

Alla veglia pubblica in suffragio di Natal’ja Estemirova organizzata da Viktor Sotirko di Memorial – l’organizzazione per la quale la giornalista/attivista dei diritti umani lavorava – per giovedì 23 luglio (nove giorni dopo la sua morte, concordemente con la tradizione ortodossa) hanno preso parte circa 150 persone. Ubicazione designata per l’evento, la centralissima Piazza Puškin, uno dei luoghi più caratteristici della capitale russa.

Non appena la milicija si è resa conto dell’alto numero dei partecipanti – troppi rispetto a quanto previsto dalle autorità cittadine – è intervenuta per disperdere la folla, arrestando l’organizzatore dell’iniziativa con l’accusa di turbamento della quiete pubblica. Secondo l’agenzia Reuters, ora Sotirko rischierebbe una condanna di minimo due settimane di detenzione.

Successivamente, molti dei manifestanti dispersi dalle forze di polizia si sono riuniti nella sede moscovita di Memorial. Qui, la direttrice del Gruppo Moscovita di Helsinki – la più antica organizzazione non governativa russa – Ljudmila Alekseeva ha reso omaggio alla Estemirova con un lungo discorso caratterizzato da una forte emozione e da una chiara visione storica della situazione caucasica. “La paura in cui sono precipitati le donne e gli uomini in Cecenia è così profonda come ai tempi di Stalin, quando le persone temevano il dialogo con qualsiasi altra persona, persino con i propri parenti e vicini di casa. E’ contro questa disperata situazione che Natal’ja Estemirova ha lottato con passione ed energia, fino a quando non è stata giustiziata”.

Dinnanzi all’impossibilità anche solo di ricordare una figura scomoda alle autorità russe, viene spontaneo riflettere sull’enorme, abissale differenza che intercorre tra una Russia illiberale ed un’Italia che, seppur con tutti i difetti a tutti noti, in quanto Paese democratico ed occidentale garantisce il sacrosanto diritto alla libera espressione e manifestazione. Rendendo così possibili iniziative come la veglia pubblica in memoria della Estemirova organizzata lo scorso 22 luglio dall’Associazione “AnnaViva” a Milano in Piazza della Scala, alla quale hanno partecipato un centinaio di liberi cittadini e diverse personalità politiche locali di ambo gli schieramenti.
Matteo Cazzulani

mercoledì 22 luglio 2009

TROVATO IL CORPO DI UN ALTRO ATTIVISTA DEI DIRITTI UMANI DOPO L’OMICIDIO ESTEMIROVA

Non sembra proprio esserci pace in Russia. E’ notizia di ieri (fonte IAR) il ritrovamento in Carelia (regione confinante con la Finlandia) del corpo senza vita di Andrei Kulagin, attivista dell’organizzazione Spravedlivost’ (Giustizia) impegnata nella difesa dei diritti umani nella Federazione Russa.

Kulagin stava lavorando alla raccolta di prove circa le terribili condizioni in cui versano le carceri russe della regione confinante con la Finlandia, la cui sede regionale di Spravedlivost’ era da lui stesso coordinata.

La notizia è stata confermata dalle forze armate di stanza in Carelia, sebbene esse non abbiano riconosciuto l’appartenenza di Kulagin ad alcuna organizzazione umanitaria e non governativa.

Ancora più agghiacciante, il fatto che il corpo dell’attivista sarebbe stato trovato nei pressi di Petrozavodsko già il 10 luglio scorso, come comunicato all’agenzia IAR da un informatore del corpo armato russo della Repubblica di Carelia. Il quale avrebbe aggiunto che Kulagin sarebbe stato accusato in vita di atti vandalici e sottoposto a diversi provvedimenti processuali.

Immediatamente, Spravedlivost’ ha fatto quadrato intorno alla figura del suo coordinatore regionale. Il rappresentante nazionale Andrej Stolbunov ha dichiarato che “non ci sono dubbi sul fatto che Kulagin sia stato vittima di un’esecuzione”. Secondo la sua versione, Kulagin sarebbe stato ucciso intorno al 14 maggio, quando si recò a bordo di un taxi in una caffetteria per un incontro urgente con un misterioso interlocutore, ancor oggi ignoto.

L’unica certezza è che Kulagin lascia una moglie ed una figlia.

Proprio nella giornata di ieri, 22 luglio 2009, un centinaio di persone si sono radunate a Milano in Piazza della Scala per una veglia pubblica organizzata dall’associazione “AnnaViva” in memoria di Natal’ja Estemirova, giornalista della Novaja Gazeta ed attivista dei diritti umani nel Caucaso per l’organizzazione Memorial uccisa la scorsa settimana dopo essere stata rapita a Groznyj, capitale della Cecenia.
Tra i vari interventi che si sono susseguiti è emerso l’auspicio di non doversi ritrovare a breve per commemorare la morte violenta di un’altra personalità scomoda al Cremlino. Purtroppo, se la notizia del caso Kulagin fosse ulteriormente confermata, saremmo dinnanzi all’ennesimo caso di omicidio di un attivista dei diritti umani nella Russia di Putin.
Ed un altro presidio sarebbe necessario per continuare a dire basta all’escalation di violenza ai danni di chi si batte per la Verità e per i diritti della persona, principi che non hanno confini e che vanno tutelati. Utilizzando un’espressione tanto di moda nel nostro Paese, senza se e senza ma.
Matteo Cazzulani

mercoledì 15 luglio 2009

DUE RIGHE SULL’OMICIDIO DI NATALIA ESTEMIROVA

Scrivo di getto queste due righe su quanto ho saputo pochi minuti fa. Natalia Estemirova, attivista dei Diritti Umani nella Russia di Putin, è stata trovata morta a Nazran, in Inguscezia. Alle 17:20 è stato trovato il suo cadavere con due fori sulla testa, come riportato dall’agenzia russa ITAR-TASS, che indicano chiaramente come la donna sia stata vittima di una vera e propria esecuzione.

Memorial, l’organizzazione attiva per la conservazione della memoria e per la tutela dei diritti umani per cui la Estemirova lavorava, ha riferito che la donna è stata precedentemente rapita a Groznyj, capitale della Cecenia: quattro uomini l’hanno prelevata e costretta a salire su una macchina. Poi, la notizia del suo ritrovamento. Esanime.

Come altre personalità di coraggio, la Estemirova osava scrivere ciò che il Cremlino non vuole sentire circa le continue violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito di Mosca nei teatri di guerra del Caucaso. Di recente stava lavorando sulla raccolta di materiali e prove circa un’”esecuzione arbitraria che ha irritato le autorità filorusse” (come riportato dal Corriere della Sera). Insomma, un “caso estremamente sensibile” circa la violazione dei diritti umani in Cecenia da parte dei russi. Roba scottante, per cui all’ombra del Cremlino si paga con la vita. Come Anna Politkovskaja e molti altri.

Una coincidenza: Natalia ha ricevuto a Londra il premio Anna Politkovskaja, riservato a quelle donne che si distinguono per il loro coraggio nei teatri di guerra. Durante quella cerimonia, auspicò un maggiore interesse del mondo occidentale, purtroppo mentalmente pigro ed assopito, dinnanzi alla questione caucasica. Pronunciò le seguenti parole: “La Cecenia è parte dell’Europa. Non potete dimenticarci”.

Sarà dura farlo capire a chi al Parlamento Europeo crede ancora che l’Europa termini a Berlino. E sarà ancora più difficile sperare che governi come quello tedesco e quello italiano trovino il coraggio di condannare l’ennesimo omicidio politico ordinato dal Cremlino. Il gas è troppo importante. Anche dinnanzi alla moria di giornalisti in Russia.

Matteo Cazzulani

venerdì 10 luglio 2009

OBAMA A MOSCA, UN VERTICE IN CHIAROSCURO

A bocce ferme, il bilancio della visita di Obama a Mosca può essere giudicato come soddisfacente solo a metà. Superlativo per la scelta di incontrare i leader delle opposizioni, ma incapace di far valere le ragioni dello scudo spaziale.

A qualche ora dalla fine della due giorni che ha visto il Presidente USA Barack Obama interloquire con il tandem Putin/Medvedev, l’esito degli incontri è stato solo parzialmente positivo. Difatti, se la stampa internazionale ha quasi all’unanimità salutato il summit come “l’inizio di una nuova epoca di cooperazione tra Washington e Mosca” e “il disinnesco di una nuova possibile guerra fredda”, l’inquilino della Casa Bianca non ha saputo risolvere il nodo legato alla questione dello scudo spaziale, su cui le due superpotenze restano ancora troppo distanti.

Il progetto di difesa antimissilistica USA prevede l’installazione di una postazione radar in Repubblica Ceca e il dispiegamento di una batteria di 95 intercettori patriot in Polonia. Siglato la scorsa estate con due accordi separati – non senza esitazioni, soprattutto da parte polacca – ufficialmente ha lo scopo di difendere il mondo occidentale da minacce provenienti da autocrazie quali l’Iran e la Corea del Nord. De facto, è stato accettato da Praga e Varsavia dopo aver constatato l’incapacità da parte dell’Unione Europea di garantire appoggio militare e politico ai Paesi dell’area centro-orientale del nostro continente a fronte di possibili attacchi da parte della Russia: un’autocrazia dalle rinate velleità imperiali che, come dimostrato dall’aggressione alla Georgia dello scorso agosto, non lesina il ricorso allo strumento bellico per riportare sotto la sua influenza Paesi e popoli ai loro occhi colpevoli di desiderare dopo secoli di dominazione e repressione zarista e sovietica l’occidente, l’UE e la NATO – sinonimi di democrazia, libero mercato e prosperità economica.

Era ovvio che si sarebbe trattato del punto più critico in assoluto del vertice. Difatti, le parti non hanno raggiunto nessun accordo, né firmato alcun documento comune, rimandando la questione a future negoziazioni.
Con Mosca sembra proprio non essere possibile trattare. Nel corso della conferenza stampa, il Presidente della Federazione Russa Dmitrij Medvedev ha dichiarato inizialmente che “tempo fa le due parti [russa ed americana, n.d.a.] erano molto distanti, mentre oggi sono più vicine. Tuttavia, restano ancora da definire i dettagli, elemento-chiave su cui lavorare per poter giungere ad una soluzione”. Salvo poi raffreddare il tiepido inizio, affermando che “gli Stati Uniti sostegono che lo scudo non sia orientato verso la Russia, ma noi [russi, n.d.a.] la pensiamo diversamente. Sulla questione dobbiamo ancora lavorare molto”.

Peccato per Obama, il quale sin dall’inizio del suo mandato ha deciso di intraprendere una politica estera morbida, improntata sull’ostinata ricerca di dialogo con interlocutori delicati quali Russia ed Iran. Ma, così come dimostratosi con Teheran, giocare col fioretto con tali Paesi non sempre paga. Purtroppo. Ed anche questa volta, su questioni concrete da cui dipendono non solo gli USA e la comunità occidentale, ma soprattutto i Paesi della Nuova Europa – per scelta e per forza stretti alleati di Washington – al tentativo di stabilire una collaborazione, addirittura coinvolgendo la Russia nel progetto di difesa missilistica, Mosca ha risposto con un gentile ma secco net.
Così, l’Europa centrale continuerà ad essere inquieta dinnanzi all’aggressività del vicino russo, i missili iskander rimarranno dislocati nell’enclave russa di Kaliningrad – tra la Polonia e la Lituania – contro Praga, Varsavia, Vilna e Stoccolma, e Washington continuerà a bussare alla porta del Cremlino speranzosa in un dialogo non corrisposto.

Fatto salvo la scelta sulla condotta da mantenere con chi democratico ancora non è (forse obbligata dopo otto anni di scellerata amministrazione Bush), Barack Obama si è confermato un vero Presidente degno di un Paese occidentale decidendo di ricevere i leader dei partiti dell’opposizione russa e delle organizzazioni non governative presso il suo albergo (il Ritz-Carlton) nella serata di martedì 7 luglio.
All’incontro hanno partecipato Garri Kasparov del movimento “L’Altra Russia” (Drugaja Rossija), Boris Nemcov del partito Solidarnost’, Vladimir Ryžkov del Partito Repubblicano Russo (Republikanskaja Partija Rossij) e Sergej Mitrochin del partito liberale e filoeuropeo Jabloko per quanto riguarda i soggetti politici osteggiati dal Cremlino, Gennadij Žuganov del Partito Comunista Russo (Kommunističeskaja Partija Rossij) e Il’ja Ponomarionov del partito “Russia Giusta” (Spravedlivaja Rossija) per quanto riguarda le liste riconosciute dalla “verticale del potere”.

Prima dell’incontro, Obama ha espresso l’auspicio che si possa aprire con Medvedev un nuovo capitolo nei futuri negoziati in cui trattare la situazione delle opposizioni politiche e delle organizzazioni non governative dichiarate fuori legge da Mosca. Che difficilmente sarà accolta. Agli invitati ha affermato che “La presenza di una società civile è un aspetto molto importante. Uno Stato forte ha una forte società civile. Il reale progresso viene dal basso, dal cittadino” Inoltre, ha aggiunto che il futuro della Russia dipende principalmente dal suo popolo, e ha sottolineato l’importanza della libertà di stampa, del rispetto dei diritti umani e della trasparenza nell’amministrazione governativa, "valori che non appartengono agli USA ma che sono universali, e per questo Washington li tutelerà in ogni parte del Mondo”.

Speriamo soltanto che alla prossima occasione di incontro con un esponente della Federazione Russa, Obama si ricordi che questi valori all’ombra del Cremlino sono calpestati. Purtroppo, con cadenza quotidiana.
Matteo Cazzulani

domenica 5 luglio 2009

BIELORUSSIA, LA CALDA ESTATE POLITICA IN UN PAESE SULL’ORLO DELLA CRISI DEL GAS

La scelta del candidato delle opposizioni, il mancato riconoscimento di Ossezia del sud ed Abchazja, la liberazione della “spia” americana Zeltser sono nodi che Minsk dovrà affrontare nei prossimi mesi. Il tutto, in un Paese che rischia ritorsioni russe sulle forniture energetiche dopo gli ultimi strappi da Mosca. E che deve ancora chiarirsi le idee sulla propria storia.

Abbigliato in uniforme militare, il presidente Alaksandar Lukašenka ha festeggiato solennemente il sessantacinquesimo anniversario dell’indipendenza bielorussa, festa istituita nel 1996 per ricordare la sconfitta delle truppe naziste di occupazione ad opera dell’armata rossa. Nonostante la crisi economica abbia colpito pesantemente anche Minsk, bat’ka non ha voluto rinunciare alla tradizionale parata militare, durante la quale ha mostrato alcuni “pezzi pregiati” del suo esercito: batterie di missili S-300, Smierš, Grad; aerei militari e più di 3000 soldati.

In conclusione della sfilata, Lukašenka ha dichiarato che “la fonte della sovranità della Bielorussia sta nella volontà della nazione e nel rispetto della sua storia”, ragione per cui occorre “ricordare come il popolo bielorusso abbia impedito all’occupante hitleriano di mettere Minsk in ginocchio grazie all’indispensabile ausilio dell’armata rossa che ha liberato il Paese”. Peccato che, come sottolineato dal filosofo Aleś Ančipenka, l’aiuto sovietico non abbia comportato la libertà, bensì 65 anni di un’ulteriore dittatura [di cui il regime odierno è figlio, n.d.a.] responsabile di violenze, arresti ed omicidi politici. “Il regime ha cancellato volutamente fatti e simboli della storia non conformi all’ideologia comunista. Ad esempio, perché non si parla della Repubblica Popolare Bielorussa [proclamata il 25/3/1918 e destituita dall’armata rossa comunista un anno più tardi, n.d.a.], della Bielorussia post-sovietica e addirittura della preziosissima esperienza del Granducato di Lituania [1238 ca.-1795, n.d.a.]? Oggi, così come al tempo dell’URSS, l’unico grande mito storico può essere soltanto quello della Grande Guerra Patriottica contro i nazifascisti, ed è vietato affrontare quei periodi storici in cui, anche secoli addietro, la Russia ha de facto osteggiato ed annichilito ogni forma statale bielorussa”.

Questioni storiche a parte, alcuni fatti accaduti negli ultimi giorni preannunciano un’estate calda dal punto di vista politico. Innanzitutto, per unire le forze fin da subito in un’unica campagna elettorale nella quale parlare al Paese con una voce sola, i leader delle opposizioni democratiche, liberali e filoeuropee al regime di Lukašenka hanno prospettato la scelta del candidato da opporre al bat’ka nelle prossime elezioni presidenziali – sempre se saranno rese possibili dal regime – nonostante alla chiamata alle urne manchi ancora un anno. Secondo gli esperti, tra i nomi più papabili figurano Lavon Borščeviski del Fronte Popolare Bielorusso, lo storico oppositore vicino alla minoranza polacca Aleksander Milinkević del Movimento per la Libertà (Za Svabodu) e l’ex detenuto politico leader emerito del partito Hromada (di ispirazione socialdemocratica) Alaksandar Kazulin. La scelta del comune candidato del Presidio delle Forze Democratiche Unite – così si chiamerà la coalizione – avverrà il prossimo 8 luglio.

Dopo la guerra del latte, continua il gelo tra la Bielorussia e l’altrettanto autocratica Federazione Russa. Lo scorso 30 giugno, il Parlamento di Minsk ha rifiutato l’esame della mozione con la quale Minsk avrebbe riconosciuto in via definitiva l’indipendenza delle province georgiane dell’Abchazja e dell’Ossezia del Sud, occupate dai russi lo scorso agosto e strappate a Tbilisi dopo una spregiudicata aggressione militare. Il rinvio a settembre del dibattito sulla questione è avvenuto coraggiosamente nonostante le continue pressioni da parte di Mosca, che così rimane l’unico Paese assieme al Nicaragua a riconoscere i due nuovi pseudo-staterelli caucasici. Negli ultimi mesi, la Russia ha provocato un conflitto commerciale per obbligare Minsk al loro riconoscimento entro la fine di giugno, e adesso – stando alle analisi di alcuni esperti – i rapporti tra i due Stati subiranno sicuramente un ulteriore irrigidimento.

Infine, sempre martedì 30 giugno è stato scarcerato Emmanuel Zeltser, legale americano arrestato circa un anno fa con l’accusa di spionaggio industriale, e per questo condannato inizialmente a tre anni di detenzione. La decisione è stata presa di persona da Alaksandar Lukašenka nel giorno in cui a Minsk era in visita una delegazione del Congresso di Washington, consentendogli di rimpatriare in compagnia di personale medico dell’ambasciata USA.

I diplomatici americani hanno sottolineato come Zeltser si trovi in un pessimo stato di salute: diabetico, soffre anche di artrite e di problemi al cuore. E dall’inizio di giugno ha condotto uno sciopero della fame. Specialista in studi sulla delinquenza in Russia e nei paesi ex-sovietici, il legale newyorkese è stato arrestato a Minsk nel marzo 2008 assieme alla sua assistente, la russa Vladlena Funk. Ancor prima dell’inizio del processo circolavano notizie sul trattamento riservato a Zeltser, continuamente picchiato dalle guardie carcerarie.

Il processo Zeltser è stata l’ennesima prova di forza con l’occidente di Lukašenka. Un dittatore che ora, designato come prossimo obiettivo della politica aggressiva di Mosca e screditato agli occhi dell’occidente, rischia seriamente di ritrovarsi sempre più solo.
Matteo Cazzulani

venerdì 3 luglio 2009

CRISI BIELORUSSIA-RUSSIA: IL GAS DIETRO LA GUERRA DEL LATTE

Il monopolista russo Gazprom ha intimato alla bielorussa Beltransgaz il pagamento della somma di 230 milioni di dollari per ripianare il debito per le forniture di gas. Lo scorso gennaio, simili richieste nei confronti dell’Ucraina Naftogaz portarono all’interruzione delle forniture a Kyiv. E, di conseguenza, all’Unione Europea.

Come riportato dall’emittente Radio Echo Moskvy e dall’agenzia di informazione Interfax, l’esosa richiesta riguarderebbe le pendenze per il semestre gennaio-maggio. L’agente diplomatico russo – e quindi di Gazprom – Andrej Kuzniecov ha dichiarato che “la richiesta è già stata inoltrata a Beltransgaz”. Ma non riguarderebbe i debiti contratti per le forniture di carburante, per le quali Minsk dovrà fronteggiare un ulteriore esborso finanziario.

Il prezzo del gas esportato in Bielorussia nel primo quadrimestre del 2009 è stato incrementato da 128 a 210 Dollari per 1000 metri cubi. Tuttavia, dopo l’incontro di Zavidovo dello scorso marzo, il presidente bielorusso Alaksandar Lukašenka è riuscito a convincere il suo omonimo russo Dmitrij Medvedev ed il primo ministro di Mosca Vladimir Putin – de facto ancora il vero leader del Paese – ad abbassare l’importo ad un prezzo medio di 150 Dollari, valido per le forniture fino a fine anno. Purtroppo, si è trattato solamente di un accordo orale. E siccome carta canta, l’amministratore di Gazprom Sergej Kuprjanov ha ricordato a Minsk che nessuna modifica al contratto è stata apportata. Ergo, Beltransgaz dovrà rispettare i patti, e saldare i tre quadrimestri di fornitura alla cifra iniziale.

Occorre ricordare che all’inizio del 2009 una simile pretesa da parte di Mosca verso l’ucraina Naftogaz portò all’interruzione del flusso di gas a Kyiv e all’Unione Europea tutta.

Russia e Bielorussia da qualche settimana stanno combattendo una guerra commerciale. Il 6 giugno scorso, Mosca ha imposto l’embargo per l’importazione di latte e derivati provenienti dalla Bielorussia, in virtù del presunto mancato rispetto delle norme russe che regolano il commercio di tali generi. Minsk ha considerato la decisione come un vero e proprio attentato alla stabilità economica bielorussa, fortemente dipendente dalle esportazioni di prodotti caseari alla Federazione Russa. Per questa ragione, ha imposto un rigido controllo doganale lungo tutta la frontiera, e, stando ad alcune indiscrezioni, sarebbe intenzionata ad adottare un simile embargo per l’importazione di birra russa.

Secondo quanto riferito dalla ministra dell’agricoltura bielorussa, Jelena Skrynnik, la produzione dei prodotti caseari non rispetterebbe alcune norme igienico-sanitarie vigenti a Mosca. Per pronta risposta, la Skrynnik ha promesso di porre rimedio nel più breve tempo possibile, al fine di evitare il protrarsi dell’embargo, dannoso per la stabilità economica del Paese.

Dietro le quinte, una curiosa coincidenza: il 5 giugno – giorno precedente all’inizio della “guerra del latte” – Lukašenka ha sventato un tentativo del Cremlino di rilevare il controllo dell’industria casearia bielorussia (che a Minsk è ancora di proprietà dello Stato). E ancor più curioso è il fatto che la richiesta di Gazprom arrivi a pochi giorni dal rifiuto di Lukašenka di firmare il trattato di costitituzione di una comune forza militare di intervento dell’Organizzazione per il Patto di Sicurezza Collettiva, capeggiata dalla Russia, a cui appartengono alcune repubbliche dell’Asia ex-sovietiche.

Dunque, questa scaramuccia commerciale è l’ennesima dimostrazione delle velleità imperialistiche del Cremlino, intenzionato ad assoggettare economicamente e militarmente i Paesi un tempo appartenenti all’URSS. E dopo il latte, Mosca si prepara a punire la ribelle Bielorussia con l’arma del gas, facendo presagire il rischio per il prossimo inverno di una nuova crisi energetica che, inesorabilmente, avrà ricadute sull’Unione Europea.
Matteo Cazzulani

PATTO DI SICUREZZA COLLETTIVA: MINSK DICE NO A MOSCA

Il presidente bielorusso Alaksandar Lukašenka ha rifiutato di firmare l’accordo per l’istituzione di una comune forza di pronta reazione degli eserciti ex-sovietici.

Dunque, bat’ka ha declinato l’invito al vertice dell’Organizzazione del Patto di Sicurezza Collettiva, incaricato di varare la costituzione di una forza militare composta da paesi un tempo appartenenti all’URSS per mantenere l’ordine in Asia centrale. Tale progetto rappresenta una risposta alla NATO da parte di Mosca, desiderosa di ristabilire il vecchio impero di un tempo e di rilanciare la competizione militare contro l’occidente e gli USA in particolare, malgrado le ultime posizioni concilianti assunte dall’amministrazione Obama.

La defezione bielorussa ha creato un vero e proprio caso diplomatico poiché Minsk è da sempre l’alleato più fedele del Cremlino. Alla base della decisione vi sarebbe la volontà di Lukašenka di protestare contro l’embargo dei prodotti caseari provenienti da Minsk introdotto la scorsa settimana da Mosca. Il divieto di importazione di latte e di suoi derivati rappresenta un durissimo colpo per la già martoriata economia bielorussa.

Il portavoce del ministero degli esteri bielorusso, Andrei Popov ha illustrato all’agenzia di stampa Associated Press come si tratti di “una vera e propria discriminazione economica atta a minare le fondamenta dell’economia di uno dei Paesi aderenti all’Organizzazione per il Patto di Sicurezza Collettiva. Una guerra economica tra membri dell’OPSC che rappresenta uno schiaffo al buon senso”. Successivamente, una nota del medesimo ministero ha ratificato la decisione di non partecipare al vertice dell’organizzazione, in programma a Mosca lunedì 15 giugno.

La Bielorussia è alleato di ferro della Federazione Russa sin dalla caduta dell’URSS nel 1991. Tuttavia, tensioni si sono alternate tra i due paesi in seguito ai ripetuti tentativi da parte del Cremlino di ristabilire il proprio controllo nel mondo ex-sovietico. Ne sono un esempio i continui screzi tra Alaksandar Lukašenka e Vladimir Putin, seppur uniti da un patto di amicizia in campo militare ed economico.

Il boicottaggio dei prodotti caseari è stato deciso dopo che il presidente bielorusso ha dichiarato di temere la volontà di Mosca di estendere il controllo sulle industrie e di annichilire la sovranità del suo Paese. Inoltre, ha fatto esplicito riferimento ad una possibile cecenizzazione dell’area, alla quale la Bielorussia sarebbe pronta a rispondere con tutti i mezzi possibili, non escluso quello militare.

Tuttavia, Lukašenka dipende in toto dall’altrettanto autoritario regime di Mosca sia sul piano economico che su quello politico. Inoltre, in 15 anni di vera e propria dittatura bat’ka non è riuscito a migliorare le relazioni con l’occidente, rinunciando a rilasciare tutti i detenuti politici e a garantire lo svolgimento di libere consultazioni elettorali senza ricorrere ai brogli per falsarne il risultato a suo favore.

Da canto suo, il Cremlino subisce una forte frenata al progetto volto a ristabilire il controllo politico, militare ed economico sull’area dell’ex-URSS. L’aggressione contro la Georgia dello scorso agosto, le continue minacce ed interferenze nella politica interna ucraina, l’appoggio fornito al dittatore comunista Voronin nel falsare le elezioni in Moldova e nel reprimere le successive – legittime – manifestazioni per la democrazia e per l’avvicinamento all’UE di Chisinau ne sono esempi tangibili e recenti. Così come l’aggressività dimostrata nella politica energetica: con la costruzione dei gasdotti Nordstream – sul fondale del Mar Baltico – e Southstream – attraverso il Mediterraneo – Mosca punta all’accerchiamento ed all’isolamento di nemici come Polonia, Svezia, Paesi Baltici (membri dell’Unione Europea), Ucraina e Turchia. Il tutto con il gravissimo appoggio di stati europei irretiti dal Cremlino e conniventi con esso, quali Germania ed Italia.

La mancata partecipazione della Bielorussia al vertice di Mosca complica la situazione anche perché Lukašenka sarebbe stato designato a capo del consiglio dell’OPSC. Inoltre, la decisione rappresenta un prima, coraggiosa presa di posizione contro la politica espansionistica del Cremlino a poche settimane dalla visita in Russia del presidente USA Barack Obama, prevista per il mese di luglio. Durante l’incontro sarà affrontata la delicatissima questione della riduzione degli armamenti nucleari. E con la creazione di una forza di pronto intervento, Mosca intende dimostrare la sua egemonia in Asia centrale per aumentare il proprio peso specifico nelle trattative con Washington, la cui politica improntata al dialogo potrebbe rivelarsi sterile ed inefficace. Iran docet.
Matteo Cazzulani

ROMA FINANZIA NORDSTREAM

Secondo il quotidiano russo Kommersant”, con tutta probabilità il governo italiano finanzierà la costruzione di Nordstream, gasdotto che attraverso il mar Baltico collegherà direttamente la Russia con la Germania. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ne parlerà con Putin nei prossimi giorni.

I costi di costruzione del Nordstream ammontano a circa 7,4 miliardi di euro. Esso è stato fortemente voluto da Mosca per aggirare paesi “scomodi” al Cremlino come Polonia, Svezia e Paesi Baltici – tutti appartenenti all’Unione Europea – per fornire gas direttamente alla Germania. Un consorzio creato ad hoc dal colosso energetico di Stato russo Gazprom avrebbe dovuto avviare gli investimenti nella primavera del prossimo anno. Tuttavia, in tempo di crisi le risorse economiche necessarie al finanziamento di un progetto così costoso sono venute meno.

Sempre stando a quanto riportato dal Kommersant”, il 30% dei costi sarebbe comunque coperto da Gazprom. Il rimanente 70% graverebbe invece sulle casse dei governi tedesco ed italiano. L’agenzia di credito tedesca Hermes e l’italiana SACE avrebbero già assicurato 2 miliardi di euro. Ma il Cremlino avrebbe richiesto al governo italiano un maggiore impegno economico sul progetto, pretendendo da SACE 1,7 miliardi di euro per la costruzione del tratto sottomarino del gasdotto, più altri 440 milioni per quello terrestre. Qualora l’Italia si rifiuterà, tale esborso economico potrebbe essere ricoperto dalla tedesca Hermes.

Lo scorso anno, l’azienda italiana “Saipem” – legata all’ENI – ottenne da Gazprom un lucrativo contratto di un miliardo di euro per la costruzione del primo tratto del gasdotto attraverso il letto del mar Baltico. Tuttavia, questo grande impegno dell’Italia nella realizzazione di un gasdotto che non interessa minimamente il suo territorio appare stano e spiegabile soltanto per motivazioni politico-economiche. Ad esempio, la cronica sudditanza della Farnesina agli interessi commerciali dell’ENI, che porta Roma a trattare ogni anno con Mosca singolarmente per ottenere migliori contratti per le forniture energetiche: così l’Italia impedisce una comune posizione europea a riguardo, e si astiene dal denunciare la cronica assenza del rispetto dei diritti umani in Russia, principio su cui una democrazia occidentale e matura – come l’Italia de facto è – basa le proprie radici.

Inoltre, la partecipazione attiva del nostro Paese al progetto Nordstream sarebbe anche un insulto vero e proprio alla stessa UE. I paesi della tanto vituperata Nuova Europa, penalizzati nell’acquisto di energia qualora il gasdotto in questione diventasse realtà, sono membri a tutti gli effetti dell’Unione Europea, entità statale a cui l’Italia appartiene sin dalla sua creazione. Ma il timore di contrastare gli interessi dell’orso russo potrebbero spingere l’Italia a rinnegare la sua tanto propagandata vocazione europeista. Ancora una volta.

Già, poiché anche nel 2006 – con un altro governo ed un altro ministro per l’energia – Roma rinunciò al gasdotto europeo “Nabucco” – progettato per trasportare direttamente in Europa il gas dai giacimenti dell’Asia centrale attraverso paesi alleati come Georgia e Turchia – altresì preferendo finanziare l’alternativo Southstream, costruito da Gazprom e caldeggiato da Mosca proprio per aggirare l’Europa Centrale da sud passando sotto il Mar Nero ed il Mediterraneo.

Del resto, bisogna anche sottolineare come il timore dinnanzi a Mosca non colpisca soltanto il nostro Paese. In febbraio, Nordstream ha ottenuto l’appoggio finanziario di trenta banche tra le più potenti della Vecchia Europa. Tra di esse, l’olandese ABN Amro, la francese Société Générale e la tedesca Commerzbank.
Matteo Cazzulani

PATRIOT IN POLONIA IL GIALLO CONTINUA

Sull’installazione dei missili patriot in Polonia (riportata nel precedente articolo I Patriot in Polonia nonostante lo scudo) si sta assistendo nelle ultime ore ad una vera e propria incomprensione fra le due compagini. Fonti da Washington hanno dichiarato che saranno dispiegati solamente armamenti privi di testata per scopi puramente esercitativi. Il Ministero della Difesa di Varsavia nega, ma il premier Donald Tusk richiede ulteriori chiarimenti al dicastero in questione e a quello degli Affari Esteri.

Difatti, il Pentagono, per bocca di Elizabeth Hibner, ha dichiarato di “non poter confermare i termini riportati dal viceministro della difesa polacco Komorowski nell’intervista rilasciata al Financial Times”, aggiungendo che “nei prossimi mesi la nuova amministrazione Obama ha intenzione di stringere nuovi accordi di cooperazione militare con Varsavia. Solo successivamente potrà essere stabilita la data di installazione dell’impianto missilistico nella base di Słupsk”. A conferma di ciò, le dichiarazioni del maggiore Jimmie Cummings, secondo cui “le nuove consultazioni manterranno il medesimo spirito di intesa e collaborazione di quelle intercorse lo scorso agosto con la precedente amministrazione Bush”.

L’affaire si complica ulteriormente in seguito alle successive dichiarazioni della Hibner: i patriot saranno installati in Polonia “solamente per scopi esercitativi legati ad all’addestramento dell’esercito polacco”. Per questa ragione, “a Słupsk saranno dispiegati solamente missili inermi ed inoperativi”. Ad esempio, si potrà “paralizzarne il sistema di armamento interno, di modo da non permetterne nemmeno l’accensione”, come illustrato alla PAP da Rick Lehner dell’Agenzia di Difesa Missilistica del Pentagono (MDA).

Tali notizie, però, non sono state confermate dal Ministero della Difesa di Varsavia. In una dichiarazione ufficiale, Robert Rochowicz (esponente del ministero) ha indicato che “i dettagli dell’accordo sono già stati discussi e sottoscritti lo scorso agosto”, de facto non confermando l’installazione di patriot privi di testata. Ed aggiungendo che “la Polonia riceverà missili operativi, che saranno installati sul suo territorio non appena i costi del loro acquisto (circa 4 miliardi di dollari per batteria) saranno saldati”.

Nel corso di un’intervista rilasciata alla televisione TVN 24, il ministro della difesa Stanisław Komorowski ha replicato di non comprendere “come patriot inoperativi potrebbero rafforzare l’esercito polacco ed il suo apparato di difesa antiaerea”. D’altro canto, ha ammesso che in sede di colloqui estivi era stata concordata da ambo le parti la dislocazione dei missili per scopi di addestramento, “affinché i nostri soldati [polacchi, n.d.a.] imparassero ad adoperarli e a curarsi della loro manutenzione”.

Nella vicenda è intervenuto persino il premier Donald Tusk, secondo cui “qualora il progetto dello scudo antimissilistico fosse sospeso o rinviato per qualsiasi motivazione e la Polonia ottenesse comunque i patriot, sarebbe un chiaro vantaggio”. Al contrario, “occorrerebbe una riflessione più approfondita qualora ricevessimo missili privi di testata per scopi esercitativi, da completare in un secondo momento con installazioni militari supplementari”. Per risolvere al meglio la questione, il primo ministro ha richiesto chiarimenti ai ministri degli esteri e della difesa.

L’unica informazione certa che traspare tra le pieghe di questo giallo diplomatico riguarda il fatto che i patriot saranno comunque installati in Polonia. A prescindere dalla realizzazione o meno dello scudo antimissilistico che, come già riportato nel precedente articolo sopra citato, dovrebbe essere costituito anche da una postazione radar in Repubblica Ceca.

Secondo gli accordi stretti lo scorso agosto tra il Ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski e l’allora segretario di stato americano Condoleeza Rice, la batteria di missili dovrà essere installata in Polonia a gratis entro il 2012 per un periodo di qualche mese. Dopodichè, Varsavia potrà riscattarne la proprietà acquistandola in maniera definitiva.
Matteo Cazzulani

I PATRIOT IN POLONIA NONOSTANTE LO SCUDO

Il ministro degli affari esteri polacco Radosław Sikorski ha comunicato che la parte degli accordi con gli USA inerenti alla dislocazione di missili patriot in Polonia sarà rispettata a prescindere dall’installazione o meno dello scudo antimissilistico.

A margine del vertice dei ministri degli esteri del quartetto di Vyšegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca ed Ungheria) con quello svedese, Sikorski ha ricordato che nell’accordo stretto lo scorso agosto con l’allora Segretario di Stato Condoleeza Rice è specificato che “la collaborazione con Washington nella difesa da minacce di breve e medio raggio prevede il suo inizio nel 2009, ed ha come scopo l’installazione di una guarnigione stabile polacco-americana entro il 2012”. Dunque, la presenza a Słupsk (città a nord-ovest della Polonia, non lontano da Danzica) dei patriot e del corpo militare americano – che secondo il trattato dovrà addestrare soldati polacchi, a cui lasceranno il totale controllo della base dal 2012 – prescinde dall’installazione della postazione radar in Repubblica Ceca, altro tassello previsto nella realizzazione dello scudo spaziale.

Il capo della diplomazia di Varsavia ha confermato l’intenzione degli Stati Uniti di continuare uno stretto rapporto di collaborazione con la Polonia, ritenuto vantaggioso per entrambe le parti in causa.

Tale presa di posizione è stata confermata dal vice ministro della difesa Stanisław Komorowski in un’intervista rilasciata al Financial Times, nella quale ha dichiarato che “nonostante le voci di un possibile rifiuto di Obama, i colloqui polacco-americani procedono serenamente secondo i piani, e saranno ultimati entro fine 2009, quando è previsto l’insediamento di un centinaio di soldati USA e l’installazione di una batteria di 196 patriot”.

Anche Komorowski ha confermato che il ruolo dei soldati USA sarà circoscritto all’addestramento dei colleghi polacchi nella gestione della base di Słupsk. Pertanto, “la presenza di militari americani sul suolo polacco al di fuori dell’egida della NATO è da considerarsi non come un pericolo, bensì come un’eccezionale operazione di addestramento e di ammodernamento delle strutture dell’esercito di Varsavia”.

Conferme sono arrivate anche da Washington. Dal Dipartimento di Stato americano, Yan Kelly ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa che la batteria di patriot sarà dislocata in Polonia in quanto elemento di modernizzazione delle forze armate polacche, segnando una nuova tappa della già ottima collaborazione tra Polonia ed USA. Alla domanda specifica se la presenza di tali missili dipenderà o meno dall’installazione della postazione radar in Repubblica Ceca, ha risposto con un deciso “no”.

Un altro membro del Dipartimento di Stato, Marc Toner, ha aggiunto che “nonostante le voci di un possibile ripensamento da parte della Casa Bianca, il Presidente Barack Obama ha confermato al premier polacco Donald Tusk la realizzazione dello scudo antimissilistico”. Che, pertanto, sarà ultimato nei tempi e nei modi stabiliti.

Occorre ricordare che su questo progetto il governo polacco del liberale Tusk aveva assunto una posizione inizialmente scettica, preferendo un maggiore coinvolgimento dell’Unione Europea anziché di singoli Stati ad essa appartenenti. Tuttavia, il colpevole silenzio di Bruxelles dinnanzi all’aggressione russa ai danni della Georgia dello corso agosto, e la mancata presa di posizione delle cancellerie dell’Europa occidentale – Italia e Francia in primis – in difesa dei membri UE dell’Europa Centrale dalle continue minacce di Mosca di creare un proprio sistema missilistico con vettori dislocati nell’enclave russa di Kaliningrad (un tempo Königsberg, città natale del filosofo Immanuel Kant, ubicata tra la Polonia e la Lituania) ed una postazione radar in Bielorussia, ha spinto, quasi costretto Varsavia a sottoscrivere l’accordo.

Una Russia che, dunque, fa ancora paura. E tanta. Lo dimostra il Documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale 2009-2020, presentato ad inizio maggio. In esso, le autorità del Cremlino sostengono la teoria secondo la quale in futuro potrebbero sorgere conflitti per il controllo delle fonti energetiche nel vicino oriente, nel Mare di Barents, in altre regioni dell’Artico, nel bacino del Mar Caspio, in Asia Centrale e nel Caucaso. Ciò, sempre a detta del documento, giustificherebbe ogni intervento armato di Mosca, le cui truppe sono ora già fortemente impegnate nel reprimere il popolo ceceno e nell’aggredire quello georgiano.

Nel documento è contenuta anche l’affermazione secondo cui “la Russia farà di tutto per riottenere la grandezza militare di un tempo, pareggiando l’attuale predominio americano”. In primis, opponendosi ad ogni forma di allargamento dell’UE e della NATO soprattutto a quei paesi come Ucraina e Georgia considerati proprie colonie da riconquistare dopo la loro [più che legittima, n.d.a.] indipendenza, ottenuta nei primi anni novanta e consolidata dopo le rivoluzioni liberali “colorate” – quella delle rose del 2003 in Georgia e quella arancione in Ucraina nel 2004. E, in secondo luogo, contrastando ogni manovra militare occidentale, tra cui per l’appunto il progetto di difesa antimissilistico.

Questo scudo spaziale USA è l’ennesima prova tangibile dell’assenza di una comune politica estera e di difesa europea, e non una tendenza imperialistica di Washington – troppo spesso accusata di condurre una politica spregiudicata. Il superamento di questa situazione potrà avvenire soltanto con una maggiore integrazione delle istituzioni UE, e non con sterili manifestazioni di sentimenti antiamericani o di insensati pregiudizi nei confronti dei “nuovi europei”.
Matteo Cazzulani

NASCE IN RUSSIA IL MOVIMENTO DEMOCRATICO “SOLIDARNOST’”

L’ opposizione democratica russa ha creato il movimento “Solidarnost’” (Solidarietà) – ha comunicato il leader dell’Unione delle Forze di Destra (SPS) Boris Nemcov.

Il nuovo movimento non è né una coalizione, né un’unione di partiti, bensì raggruppa persone private, con lo scopo di compattare la divisa opposizione russa.

Tra i promotori, oltre al già citato Boris Nemcov, anche il leader del Fronte Civico Unito (OGF) Garri Kasparov – ospite lo scorso 29 ottobre del convegno “Contro gli zar del gas” organizzato a Milano dall’Associazione ANNAVIVA –, l’attivista nel campo dei diritti umani – troppo spesso calpestati da Mosca, soprattutto in Cecenia – Lev Ponomarjov, ed Ilja Jašin, segretario della giovanile di Jabloko, partito liberale filoeuropeo.

I fondatori del movimento non nascondono di essersi ispirati a Solidarność, sindacato libero che negli anni ottanta sconfisse il comunismo in Polonia, riprendendone il nome per battezzare il neonato progetto democratico.

Solidarnost’ si costituirà al suo interno secondo il modello dei partiti tradizionali: programma definito e vertici dell’organizzazione scelti in appositi congressi. La classe dirigente del movimento mira ad essere giovane, pronta a sobbarcarsi su di sé forti responsabilità politiche, quali lo svecchiamento del panorama politico russo e la fine del regime del duo Putin-Medvedev.

Il congresso di fondazione del movimento si è tenuto a Khimki (periferia di Mosca) lo scorso 12 dicembre, ed è stato preparato da conferenze regionali a Mosca, San Pietroburgo, Omsk, Voronež, Tomsk, Jaroslav, Južno-Sachalin, Čeljabinsk e Rostov sul Don, incaricate di eleggere i delegati. Un prossimo congresso, convocato per la primavera del prossimo anno, definirà con tutta probabilità lo status definitivo del movimento.
Matteo Cazzulani

LA RUSSIA VUOLE IL POSSESSO DEI GASDOTTI UCRAINI

“La Russia non ha inviato a Kyiv alcuna proposta ufficiale circa la costituzione di una commissione internazionale incaricata di monitorare il transito del gas russo diretto ai Paesi UE attraverso il territorio ucraino” ha dichiarato sabato 10 gennaio Kostjantyn Eliseev, viceministro degli Esteri del governo Tymošenko.

Eliseev ha dichiarato che l’Ucraina ha conosciuto il contenuto del progetto russo esclusivamente da informazioni non ufficiali, ed ha aggiunto che “le condizioni in esso contenute testimoniano la volontà di Mosca di controllare il sistema ucraino di trasporto del gas”.

In particolare, il diplomatico si riferisce alla “sottomissione dei gasdotti ucraini al costante monitoraggio da parte di Gazprom, e alla consegna ai russi del pieno controllo sul sistema di transito del gas ucraino: de facto, la piena appropriazione da parte di Mosca”.

Eliseev ha anche sottolineato come l’Ucraina sia “pronta a collaborare con Mosca e Bruxelles per la creazione della commissione internazionale”, non potendo però accettare le proposte russe su tale argomento.

La Russia ha posto la creazione di una commissione internazionale incaricata di monitorare il transito del gas attraverso il territorio ucraino come condizione indispensabile per la ripresa delle erogazioni di carburante ai paesi UE.

Mosca ha preteso che questa commissione fosse composta non solo da personale tecnico e da rappresentanti russi di Gazprom, ucraini di Naftogaz e della Commissione Europea, ma anche di circa 12 consorzi energetici europei produttori, conduttori, importatori ed esportatori di gas. Tra essi, ovviamente nessun ente polacco né dei Paesi baltici, bensì aziende tedesche, italiane, francesi, slovacche, rumene, moldave, bulgare e greche di cui Gazprom possiede quote di partecipazione o coi quali il colosso monopolista russo ha fortissimi legami.

I russi hanno anche richiesto con forza l’inserimento tra le competenze della commissione – oltre al controllo sul transito di carburante in Ucraina – del monitoraggio dello stato tecnico dell’intero sistema di conduzione, incluse le riserve sotterranee di gas, e del libero accesso alle documentazioni senza bisogno dell’autorizzazione di Kyiv.

Nonostante una pace apparente sia stata in queste ore raggiunta grazie all’impegno del presidente di turno UE, il ceco Mirek Topolánek, e Gazprom abbia ripristinato l’invio di gas all’Europa tramite il territorio ucraino, tale disegno da parte di Mosca certifica una reale continuazione di una crisi ben lungi dall’essere definitivamente superata.
Matteo Cazzulani

LA TRANSCARPAZIA COME L’ OSSEZIA. L’UCRAINA COME LA GEORGIA?

Per la gioia di Mosca, gli abitanti della Transcarpazia hanno fissato per il 1 dicembre la proclamazione di indipendenza. Il loro leader paragona la situazione a quella dell’ Ossezia del sud e dell’ Abchazja


I problemi dell’Ucraina non si limitano a Crimea e parte orientale del Paese (abitata da circa 10000000 di persone di etnia russa), ma anche le regioni occidentali costituiscono un problema per Kyiv. La regione della Transcarpazia (città principale Užgorog) consiste in 20000 km quadrati di terreno montagnoso, popolato da 1400000 abitanti. Per secoli appartenne all’ Austria-Ungheria, per passare negli anni ’20 alla Cecoslovacchia, poi all’ Ungheria, ed infine, dopo la seconda guerra mondiale, all’ Unione Sovietica.

– Non vogliamo l’ indipendenza, vogliamo una federazione. – sostiene il sacerdote Dmitrij Sidor della chiesa ortodossa (filorussa) ucraina, leader dei separatisti. – Ma poiché Kyiv non ci ascolta, il primo dicembre dichiareremo l’ indipendenza – ha aggiunto.

Lo status richiesto di repubblica autonoma ricorda quello gia ottenuto sotto la Cecoslovacchia col trattato di Monaco dell’ autunno 1938. Con l’arrivo dei nazisti a Praga, la regione si dichiarò Repubblica indipendente Transcarpatica Ucraina. Dopo una parentesi sotto Budapest, diventò parte della Repubblica Sovietica Ucraina, inglobata nell’URSS.

Secondo gli esperti, cruciale è la questione etnica sull’esistenza o meno del popolo russino (abitante la Transcarpazia), una discussione, sul tappeto da più di cento anni, incentrata sulla maggiore vicinanza all’elemento russo o a quello ucraino. Dai tempi della dominazione cecoslovacca, è prevalso l’ultimo indirizzo di pensiero.

Altra questione riguarda la consistenza numerica dei russini: 10000 secondo il censimento ufficiale del 2001, 800000 secondo i separatisti.

La notizia della dichiarazione di indipendenza della Transcarpazia non è stata accolta serenamente da Kyiv. I vertici del Blocco Julija Tymoshenko ( BJT, il partito di governo) si è appellato alla procuratura per risolvere la questione. Dmitrij Sidor è stato accusato di “azioni lesive l’integrità territoriale ucraina”.

Mosca strumentalmente appoggia il moto di indipendenza, pronta a sposare la questione transcarpatica per indebolire la già lacerata coalizione arancione, liberale e filoeuropea, e per estendere la propria influenza su Kyiv, sebbene (stando ad un recente sondaggio) la maggioranza degli ucraini ambisca ancora all’ ingresso nella NATO e nell’ UE.

– Chi può, dalla Transcarpazia fugge in Repubblica Ceca, in Slovacchia o in Ungheria, attratto dalle possibilità offerte dall’Unione Europea – spiega Mikola Musinka, etnologo slovacco redattore della rivista praghese Ukrajinski Žurnal (“Rivista Ucraina”). Secondo la sua opinione, in caso di referendum sull’ indipendenza della Transcarpazia la maggioranza schiacciante della popolazione locale voterebbe a favore. Similmente a quanto accaduto nel 1991, quando il 78% approvò l’autonomia amministrativa territoriale tramite un referendum mai riconosciuto dal governo centrale.

Dinnanzi ai giornalisti, Dmitrij Sidora mette in guardia Kyiv – Consiglio al governo di ricordarsi quanto di recente accaduto in Ossezia del sud ed Abchazja: regioni perdute definitivamente da Tbilisi per non aver ascoltato la richiesta di autonomia –

Un monito sinistro che, dinnanzi alla rinata aggressività di Mosca – che gongola dinnanzi a tale situazione – rischia di rivelarsi quantomai premonitore.
Matteo Cazzulani

LA COOPERAZIONE CHE PORTA ALL’UNIONE

Bruxelles propone a tutti i paesi UE la concessione gratuita dei visti di ingresso per ucraini, bielorussi ed altri vicini dell’Europa orientale in prospettiva di una futura integrazione.


La gratuità dei visti è uno dei punti contenuti nel pacchetto per la Cooperazione Orientale, stilato dalla Commissione Europea alla fine di novembre. La Cooperazione Orientale, progetto concepito dai governi polacco e svedese e riconosciuto lo scorso luglio dall’UE, vuole essere un mezzo per avvicinare all’Europa Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia, Adzerbajdzan e, possibilmente, Bielorussia.

Nei mesi scorsi, la Commissione Europea ha varato un pacchetto di misure che tutti i Paesi inseriti nel progetto di avvicinamento all’ Unione dovranno ratificare per poter poi firmare un accordo di Collaborazione, primo passo verso l’adesione all’UE.

Tuttavia, nel documento della Commissione è espressamente specificato che “l’apertura di accordi di cooperazione non comporta automaticamente lo status di candidato membro UE”, altresì riconoscendo l’intenzione di Bruxelles a “tenere in considerazione le aspirazioni europee di questi Stati”.

- Al momento non possiamo promettere l’ingresso in Europa a qualsiasi nostro vicino orientale. La politica di Cooperazione Orientale non ha ancora ottenuto l’accordo di tutti e 27 i membri – ha dichiarato Benita Ferrero-Waldner, commissario per le relazioni estere. – Tuttavia – ha aggiunto – i lavori sul progetto non sono ancora terminati.

Nel pacchetto, Bruxelles richiede ai paesi firmatari l’apertura dei mercati con l’Unione e l’abbattimento di ogni dazio doganale. Inoltre, l’UE si impegna ad ridurre i costi e a semplificare le procedure per il rilascio dei visti di ingresso. Moldavia e Ucraina hanno già firmato un accordo a riguardo con la Commissione. Il documento prevede la sua estensione anche alla Bielorussia e, in un secondo momento, a Georgia, Armenia ed Adzerbajdžan. Oggi il costo del visto d’ingresso ammonta a 60 euro: la Commissione propone di abbassarlo a 35.

Questo pacchetto ha anche il compito di rafforzare la collaborazione dei paesi firmatari con l’Unione in diversi ambiti, dalla sicurezza energetica al controllo delle frontiere, fino alle politiche ambientali. Sebbene Bruxelles non preveda la costituzione di nuove istituzioni, propone che i ministri degli esteri UE si riuniscano con quelli dei Paesi cooperanti almeno una volta all’anno secondo la formula del 27+5 (6 se l’accordo sarà sottoscritto dalla Bielorussia).

Nel giugno 2009 è previsto un vertice UE straordinario dedicato proprio alla Cooperazione Orientale. Non è ancora chiaro se ad esso saranno invitati rappresentanti bielorussi. “Tutto dipende dallo sviluppo dei rapporti col presidente Aljaksandar Lukashenka” riporta laconicamente il documento.

Nella predisposizione del pacchetto Bruxelles ha anche sottolineato la necessità di maggiori investimenti per lo sviluppo della Cooperazione Orientale, suggerendo per il budget comunitario 2014-2020 un incremento di spesa di 1,5 mld di euro.

Il pacchetto dovrà essere accettato da tutti i membri della Commissione nel mese di dicembre, dopodichè sarà la volta dei singoli paesi membri. Alcuni, come la Germania, sono poco propensi a maggiori investimenti nel progetto.Matteo Cazzulani

ACCORDO MOSCA – MINSK: ECCO IL NUOVO PATTO DI VARSAVIA

Così sono state definite dall’opposizione bielorussa le ultimissime iniziative politico-militari volte a legare la Bielorussia ed altri Paesi dell’ex-blocco sovietico alla Federazione Russa.

Risale allo scorso martedì 3 febbraio la firma dell’accordo in base al quale Mosca e Minsk uniranno i rispettivi sistemi di difesa antiaerea. Mercoledì 4 febbraio, altri paesi ex-sovietici hanno deciso la creazione di un coordinamento militare di reazione rapida.

“La Russia ci tiene per la gola” ha dichiarato al sito internet Charta 97 il leader dei socialdemocratici bielorussi Stanislav Šuškevič, commentando i due accordi di cui sopra stretti da Lukašenka. “E’ la vecchia politica imperiale russa: difendere i propri interessi persino a discapito dell’indipendenza di popoli considerati [retoricamente, n.d.a.] come fratelli”.

“Si tratta senza alcun dubbio di un nuovo patto di Varsavia. La creazione di una comune difesa antiaerea è esplicitamente diretto contro la NATO” ha aggiunto Stanislav Šuškevič.

Il leader del Fronte Nazionale Bielorusso (BNF), Lavon Barščeuski, ha sottolineato che l’accordo con la Russia circa una comune difesa antiaerea sia “una conferma che le forze aeree militari di Minsk obbediranno de facto ai generali del Cremlino“. Ha poi aggiunto, che “la decisione di sottomettere le forze militari bielorusse al volere di Mosca è una mossa contro l’Occidente e contro l’Europa, che dimostra la falsità delle Autorità di Minsk, autrici di dichiarazioni di sola facciata in favore di una cooperazione con l’UE”.

Entrambi gli uomini politici riconoscono che la Bielorussia non ha nemici né in Occidente, né in Oriente. Pertanto, “non c’è alcuna necessità di firmare tali accordi” sottolinea sempre Šuškevič, il quale aggiunge di non credere alle promesse di Alaksander Lukašenka circa la non-partecipazione di soldati di Minsk a conflitti internazionali sotto l’egida del neonato Coordinamento di Reazione Rapida.

L’accordo stabilito tra Mosca e Minsk prevede la creazione di un comune piano di difesa delle frontiere russo-bielorusse, coadiuvato da un coordinato sistema di difesa antiaerea.

Per quanto riguarda il Coordinamento di Reazione Rapida, ad esso hanno aderito, oltre alla Bielorussia, anche Armenia, Kazakhstan, Uzbekistan, Tadzikistan e Kirgystan. Oltre a contrastare aggressioni dall’estero, gli Stati membri si impegnano a condurre operazioni speciali in ambito di lotta al terrorismo internazionale, all’estremismo e al contrabbando illegale.

L’allarmante ricrearsi di una sorta di nuovo blocco militare attorno a Mosca con tutta probabilità non avrà soltanto la NATO nel mirino, ma anche le filo occidentali Ucraina e Georgia, quest’ultima, peraltro, già violentemente aggredita dalle truppe del Cremlino non più di sei mesi fa.
Matteo Cazzulani

MADELEINE ALBRIGHT ALLA NUOVA EUROPA: OBAMA NON SI ACCORDERA’ CON LA RUSSIA SENZA DI VOI

In un’intervista rilasciata al quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, l’ex segretario di Stato USA tra il 1997 ed il 2001 rassicura Polonia, Repubblica Ceca ed Ungheria circa le reali intenzioni della nuova amministrazione americana, che in occasione dell’ultimo vertice NATO si è riconciliata con Mosca, allarmando i Paesi dell’Europa Centrale già minacciati dall’involuzione autocratica e dalla prepotente politica estera del Cremlino.

Madeleine Albright ha esordito dichiarando che l’entrata e la piena attività nella NATO di Repubblica Ceca, Polonia ed Ungheria – riunite assieme alla Slovacchia del Quartetto di Vyšegrad – è “un’importantissima realtà storica che non può essere negata, né ha senso che venga contrastata, poiché Praga, Varsavia e Budapest si trovano laddove sono sempre state: nel cuore di un’Europa, oggi unita economicamente e politicamente”.

La presenza dei tre maggiori Paesi dell’Europa Centrale è anche fondamentale per la nuova missione che la NATO si è data dopo la fine della guerra fredda: da forza militare opposta al blocco comunista ad alleanza incaricata di sostenere la democrazia nel mondo.

La Albright si sofferma sull’allargamento dell’Alleanza Atlantica del 1999, sottolineando la speranza – condivisa con l’allora presidente Bill Clinton – che un ampliamento della NATO potesse anche comportare l’integrazione nell’UE dei Paesi interessati. Evento che, fortunatamente, si è verificato cinque anni più tardi (nel 2004, con l’ingresso non solo di Repubblica Ceca e Slovacca, Polonia ed Ungheria, ma anche dei Paesi Baltici e Slovenia, oltre che di Malta e Cipro), lasciando tuttavia ancora aperta la questione con la Turchia, membro NATO ma non UE.

Per quanto riguarda la questione dell’allargamento ad Ucraina e Georgia, l’ex segretario di Stato afferma che “secondo gli intenti espressi a Bucarest nel 2008, Kyiv e Tbilisi saranno prima o poi anch’essi membri NATO”. Ma, come più volte ribadito anche nei colloqui bilaterali coi Paesi interessati, “l’Alleanza Atlantica non è un regalo, ma una responsabilità che i due Stati devono dimostrare di potere affrontare”.

Sul rapporto con la Russia, Madeleine Albright evidenzia come storicamente gli Stati Uniti abbiano cercato di uscire dalle situazioni difficili dialogando con l’allora URSS, sebbene tale confronto fosse spesso difficile ed arduo da mantenere. Gli USA sono convinti che anche oggi sia fondamentale affrontare sfide globali mantenendo un canale aperto on Mosca.

Tuttavia, la parola reset, con cui il nuovo responsabile della politica estera Hillary Clinton ed il vicepresidente Joe Biden hanno indicato il nuovo atteggiamento che Washington intende assumere con la Russia, va inteso non come un ammorbidimento, ma come “un’attitudine pragmatica volta a cercare campi in cui sia possibile cooperare con Mosca”. Ad esempio, la questione iraniana e quella climatica, sulla quale gli USA possono esercitare forti pressioni sulla Russia.
Viceversa, a Washington nessuno intende riconoscere l’indipendenza di Abkhazja ed Ossezia Meridionale, né negare il sostegno ad Ucraina e Georgia, la cui sovranità nazionale è costantemente minacciata da talune scelte del Cremlino.

Chiarimenti vengono forniti anche riguardo alla questione dello scudo di difesa antimissilistico USA che, come noto, consiste nell’installazione di una postazione radar in Repubblica Ceca e di una batteria di missili patriot in Polonia. Praga – già la scorsa primavera – e Varsavia – lo scorso agosto, preoccupata per l’aggressione russa in Georgia – sono giunte alla firma dell’accordo con la precedente amministrazione Bush. Ma le ultime dichiarazioni circa il reset nelle relazioni con Mosca hanno diffuso l’idea di una prossima rinuncia da parte di Obama al progetto, in cambio del sostegno della Russia nella questione iraniana, de facto “vendendo” la tradizionale amicizia della “Nuova Europa”.
Madeleine Albright ha sostenuto di non credere a tale affermazione, e di essere convinta che il sistema di difesa antimissilistico si farà, poiché a un progetto simile gli USA stavano lavorando già sotto l’amministrazione Clinton. L’ex segretario di Stato illustra anche come sia intenzione del neopresidente Barack Obama quella di consultarsi con tutti gli alleati, ivi compresi cechi e polacchi, affinché il progetto sia accuratamente pianificato sul piano economico e tecnico.

Inoltre, la Albright – nata nell’allora Cecoslovacchia, riparata negli Stati Uniti nel 1948 dopo la presa del potere a Praga dei comunisti – incentra l’attenzione sul suo Paese d’origine, contestando l’atteggiamento del governo ceco, accordatosi con l’amministrazione Bush senza consultare le rappresentanze cittadine dei luoghi nei quali il radar ha da essere installato: “non si può stringere un patto senza ascoltare i territori interessati. E’ proprio questo che intende Obama”.
Matteo Cazzulani

LA VECCHIA EUROPA CHE ANCORA NON ACCETTA LA NUOVA

La maggioranza dei tedeschi, francesi, austriaci, belgi e lussemburghesi giudicano negativamente l’allargamento UE ai paesi dell’Europa centrale.

Da un recente sondaggio della Commissione Europea è emerso che tra il 48 ed il 54% degli intervistati in Germania, Francia, Austria, Belgio e Lussemburgo giudica l’integrazione dei Paesi dell’Europa centrale come fattore di indebolimento dell’UE.
In passato, tedeschi ed austriaci si sono dichiarati contrari allo stanziamento di fondi per l’allargamento, timorosi di un’invasione di manodopera più a buon mercato da est. I francesi, invece, temevano che l’incremento del numero degli Stati membri avrebbe ridimensionato il peso politico di Parigi presso le istituzioni comunitarie.
Nonostante queste paure non si siano mai tradotte in realtà, ed i Paesi dell’Europa centrale ricoprano un ruolo attivo e fondamentale in seno all’Unione da ormai cinque anni, i cittadini della Vecchia Europa mantengono un’opinione negativa.

Tuttavia, il dato medio dell’Europa occidentale ha registrato un 44% degli intervistati favorevoli all’allargamento, fondamentale per il rafforzamento dell’Unione, soprattutto secondo svedesi, spagnoli, danesi e greci.

Dello stesso avviso è la maggioranza – dal 57 al 72% - degli intervistati dei Paesi che nel 2004 e nel 2007 sono finalmente entrati nell’Unione. Eccezioni, Lettonia ed Ungheria, dove le risposte positive sono state di poco superiori a quelle negative: i lettoni erano i meno entusiasti già in occasione dell’ingresso in Europa, mentre gli ungheresi hanno associato l’UE alla crisi delle finanze pubbliche.

Gli autori del sondaggio hanno evidenziato come, simbolicamente, la cortina di ferro sembra ancora dividere l’opinione pubblica europea venti anni dopo la fine della guerra fredda. La stessa caduta del Muro di Berlino è stata valutata positivamente dal 63% dei cittadini della “Nuova Europa”, mentre solo il 49% di quelli della “Vecchia” la ritengono portatrice di vantaggi in campo socio-politico-economico.

Il sondaggio ha anche posto domande sulla crisi finanziaria, e qui i giudizi si sono drammaticamente inaspriti. Solo il 33% degli intervistati ritiene che la situazione economica del continente sia accettabile (il 25% in meno rispetto alla precedente rilevazione della scorsa primavera), prevedendone un peggioramento nei prossimi anni. I più ottimisti sono i polacchi: il 56% degli intervistati di questo Paese ritiene buona la situazione nel continente, ed il 41% la giudica soddisfacente anche nel resto del mondo.

Per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza dell’Unione, il 60% degli intervistati indica l’aggressione russa in Georgia dello scorso agosto come una seria minaccia alle forniture energetiche verso l’Europa; i più preoccupati sono i polacchi (76%), seguiti da greci, cechi e ciprioti.
Il 26% degli europei ritiene che l’UE abbia dato un forte contributo alla fine del conflitto; maggiormente convinti di ciò sono i francesi, il cui presidente Nicolas Sarkozy ha negoziato con Mosca, ed i polacchi (32%), convinti che l’Unione abbia ricoperto maggiore importanza rispetto all’ONU. Tuttavia, va evidenziato che la maggioranza degli intervistati non ha preso una posizione a riguardo.
Matteo Cazzulani

UN ALBERO PER ANNA, PER NON DIMENTICARLA

Nel celebrare il ricordo di personaggi illustri, la politica è solita spendere fiumi di parole e lunghi sermoni, nella maggior parte dei casi privi di profondi contenuti, talvolta anche causa di sterili polemiche. Tuttavia, molto spesso a bastare può essere un solo gesto. Anche all’apparenza elementare.
A capirlo sono state le amministrazioni di Milano e Brescia, città che hanno scelto di commemorare la giornalista russa Anna Politkovskaja a più di due anni dal suo assassinio con atto simbolico di altissimo valore: la piantumazione di un albero. Il 5 maggio, tale cerimonia avrà luogo nel capoluogo lombardo presso il costituendo Giardino dei Giusti (ubicato nel quartiere QT8). Il giorno successivo, sarà replicata nella città della Leonessa presso il Parco delle Melle.

Promotrice di questa iniziativa, l’associazione “AnnaViva”, nata per conservare la memoria di Anna Politkovskaja e per sostenere dall’Italia il rispetto dei diritti umani e lo sviluppo della democrazia nel mondo ex sovietico, al di là del muro di Schengen. Lanciando l’appello “Un Albero per Anna”, “AnnaViva” ha richiesto al Comune di Milano la dedica di un Albero alla giornalista russa per conservarne e trasmetterne la Memoria, ottenendo il supporto di più di 1500 firmatari – milanesi e non. Sullo spunto di quanto realizzato a Milano, anche Brescia ha sposato l’iniziativa di “AnnaViva”, dimostrandosi sensibile nei confronti di questa figura esemplare.

Coraggiosa donna russa, nata a New York ma di origine ucraina, Anna si è sempre battuta dalle colonne della Novaja Gazeta – uno dei pochissimi mezzi di informazione rimasti indipendenti nella Russia di Putin/Medvedev – per raccontare la Verità circa la sistematica violazione dei diritti umani perpetrata dall’esercito federale russo in Cecenia e nel resto del Caucaso, pagando con la propria vita questa sua passione che motivava il suo impegno quotidiano. Anna era nota ed apprezzata in Russia e nel mondo per il suo modo di affrontare le vicende che seguiva, con rigore professionale e con grande passione: non ha mai giustificato il terrorismo ceceno e ha sempre auspicato la nascita di un dialogo, unica possibile soluzione del conflitto.

Col suo lavoro e col suo sacrificio, la Politkovskaja ha messo in guardia sulla situazione interna alla Federazione Russa – che troppi nella “Vecchia Europa” ignorano o fingono di non vedere per convenienza economica – non solo il mondo occidentale, ma anche gli stessi suoi connazionali: quei russi che in assenza di libertà di informazione sono perennemente tenuti all’oscuro non soltanto dei crimini contro l’Umanità di cui sopra, ma anche delle repressioni ad ogni forma di opposizione liberale e pacifica (come il movimento politico Drugaja Rossija di Garri Kasparov o il partito liberale filo-occidentale Jabloko) e delle vessazioni compiute nei confronti di chi russo non è, in nome di un rinato nazionalismo di cui il Cremlino si serve per consolidare il proprio potere. Esse sono rivolte in particolare contro cittadini georgiani, rei di possedere un passaporto di un Paese aggredito militarmente lo scorso agosto, che dopo secoli di dominio zarista e sovietico oggi è finalmente indipendente, contrasta la neonata autocrazia Russa, e sogna un futuro di benessere e prosperità all’interno dell’Unione Europea. Che per non irritare l’orso russo, preferisce ignorare questa legittima aspirazione, sbattendo le porte in faccia a Tbilisi ed astenendosi da ogni condanna dei metodi autoritari di Mosca.

Anna rappresenta appieno quella società civile russa “illuminata” soffocata dal regime di Mosca: quella Russia nel contempo aperta e solidale, ospitale e colta, umile ed orgogliosa. Quella Russia che ripudia la ricostituita autocrazia dal sapore antico, come solennemente ricorda l’aquila bicipite: vecchio stemma zarista non a caso restaurato da Putin come simbolo della Presidenza. Quella Russia che grida la sua opposizione con una voce offuscata e censurata, ma che Anna col suo lavoro attentamente recepiva e diffondeva, prima che un sicario la zittisse per sempre due anni or sono. Il 7 ottobre, giorno del compleanno dell’allora presidente (oggi primo ministro) Vladimir Putin. Circostanza, a detta di molti, lungi dall’essere casuale.

Con le cerimonie di Milano e Brescia, il ricordo di Anna sarà mantenuto vivo. Qui in Lombardia, lontano dalla sua Russia che tanto amava e contro la cui deriva autocratica tanto si batteva.
Per mezzo di un albero, all’apparenza insignificante, che affonderà le sue radici nel territorio dell’Unione Europea, entità statale che, metaforicamente parlando, affonda le sue sul rispetto della democrazia e dei diritti della persona: principi che Anna con convinzione aveva a cuore. Un albero che col tempo è destinato a crescere, così come – si spera – potrà crescere tra l’opinione pubblica la consapevolezza della sua opera ed il significato del suo sacrificio.

Matteo Cazzulani