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martedì 11 maggio 2010

OVRUCH, L’INFERNO ROSSO CHE SOGNA L’EUROPA. ALL’OMBRA DI CERNOBYL.



Ovruch, Koroven’, Hoshiv. Un arcipelago politicamente rosso che, tristemente, ancora subisce le conseguenze della catastrofe del 1986.


Un carro armato con tanto di bandiera rossa, la stessa issata su tutti gli edifici pubblici e sventolata dalle delegazioni delle scuole, poi la tribuna d’onore, posta davanti alla sede dell’amministrazione cittadina, su cui presenziano le maggiori autorità locali, dal sindaco ai rappresentanti dei villaggi di campagna. Arriva persino la banda, suona l’internazionale, ed è seguita da militari, poliziotti e vigili del fuoco: tutti in divisa ed in perfetto ordine. E’ con questa immagine che la cittadina di Koroven’, nella provincia di Zhytomir, a pochi chilometri dalla capitale, Kyiv, ha dato il benvenuto all’Eurobus.

E’ il 9 maggio, il Den’ Peremohy, giorno in cui si celebra la vittoria dell’armata rossa nella seconda guerra mondiale. Ma il tempo sembra non essere trascorso dinnanzi a tale atmosfera e a quella bandiera, issata persino sulla stazione. A corredo di tutto ciò, le voci provenienti dal mercato adiacente, tutte in russo. Una situazione davvero surreale, anche perché la babushka del chiosco accanto alla biglietteria vende libri esclusivamente in lingua ucraina.

Identica è l’accoglienza offerta da Ovruch, prima tappa della missione a quattro ruote che porta giovani europei ed ucraini a popolarizzare l’Europa sulle rive del Dnipro. La marea di vessilli rosso sovietico e verde militare è contrastata dal giallo-blu delle divise dell’equipaggio dello Jevravtobus e delle bandiere di UE ed Ucraina, appese sul lunotto del mezzo. Ha le medesime tinte anche il vestito dell’elegante Tamara Oleksandrivna, responsabile del soggiorno nel villaggio, accorsa con puntualità svizzera per la cena di accoglienza. “Ovruch è un paradosso – ha dichiarato nel discorso di presentazione – un’enorme contraddizione. Lo vedrete con i vostri occhi”. Parole profetiche.

Il Paesino è un caratteristico agglomerato urbano di campagna, popolato da non più di mille anime, per lo più contadini. E’ sviluppato attorno al vialone centrale, intersecato da sole sei traverse, sul quale si trovano gli edifici principali, vero e proprio punto di aggregazione della comunità locale: il supermercato, il ristorante “Kosmos”, il palazzetto della cultura – sede del circo – e la Casa Bianca, costruzione in perfetto stile sovietico abitata da Vasyl’ Petrovych, il sindaco comunista che, ostinatamente, ha voluto una parata in grande stile per il 9 maggio, come ai vecchi tempi, forte dell’ampio consenso ottenuto alle ultime elezioni. “Un amministratore pragmatico – lo dipinge il padrone del Kosmos, Volodymyr Antonovych – in Paese abbiamo votato tutti per lui. Ha dato subito lavoro a mio figlio. Proprio una brava persona”.

Di primo impatto, la complessità di questo spaccato di ucraina centro-settentrionale è politico-economica. Qui sono tutti comunisti, ma nel concreto ognuno bada al suo. E’ il caso di Mykola Serhejevych., proprietario terriero di Hoshiv, frazione di Ovruch. Si esprime in un ucraino estremamente russizzato, vicino al Bielorusso – la frontiera con il paese di Lukashenka non dista che poche centinaia di chilometri – ma molto simile al francese in quanto ad uso – o abuso – di aggettivi e pronomi possessivi, di norma poco frequenti nelle lingue slave orientali. Ci tiene a sottolineare che i suoi campi sono estesi su diversi ettari rilevati nel tempo con il sudore del suo lavoro, che le sue mucche gli danno un latte squisito, che rivende nella sua bottega in centro. E che la sua casa se l’è costruita da solo. Il benessere generale passa in secondo piano quando si può evitare di pagare le tasse, grazie ad un vero e proprio acquedotto privato, e ad un sistema di riscaldamento staccato dalla rete nazionale, alimentato da bombole a gas. Ed ignorato dalle autorità locali.
“Qui da noi non c’è mai stata alcuna crisi del gas – spiega con orgoglio – le scorte le compro sottocosto da Fedor Fedorovych, il carrozziere, in cambio del mio formaggio e delle mie uova. Non ho bisogno di lavorare. Sono autosufficiente, do da mangiare a Irina e Ihor’ [la moglie, russa, ed il figlio adolescente, n.d.r.] e pago l’università a Olena [la figlia, studentessa a Rivne, n.d.r.] . Le uniche spese sono per la luce. E per qualche nuovo maiale”.

A conferma, la spiegazione dell’altro coordinatore locale, Hryhorij Petrovych, nativo di Uzhgorod – in Transcarpazia – ma residente Ovruch da una trentina d’anni. Ha ben chiare le dinamiche politiche di una zona che, contrariamente alla tendenza regionale, dove a vincere è Julija Tymoshenko, vota comunista. Un orientamento frutto di un sistema clientelare tipico di tutte le campagne del Paese, sia a est che a ovest. “La società ucraina dei villaggi non è ancora pronta per una democrazia matura, e permette alle elite politiche dominanti di controllarne ed indirizzarne il voto. Qui, a differenza che nel resto della Oblast’, comandano i comunisti. Per questo, le cariche locali le ricoprono tutte loro, e alle elezioni nazionali vince sempre il Partija Rehioniv: una Kompartija mascherata. Siamo un’isola rossa nel cuore del Paese”.

Una Stalingrado d’Ucraina, si direbbe alle nostre latitudini. Anche grazie al fatto che nelle case i canali che si possono vedere sono solo tre, di cui uno è quello statale bielorusso che, nelle mani del regime di Lukashenka, offre un’informazione parziale e dipinge la Bielorussia con tinte idilliache, al punto da costituire una sorta di Europa alternativa ove emigrare qualora non si riuscisse ad ottenere un visto UE. “Non c’è come la televisione ad aiutare i comunisti a stare al potere – sostiene il docente di storia della scuola del paese, Anatolij Mykolajevych – i miei alunni sono imbevuti della propaganda di Lukashenka al punto da desiderare di vivere e lavorare in Bielorussia. Faccio il possibile per spiegargli che la realtà è ben diversa, parlo loro di cos’è stato l’Holodomor e le purghe staliniane contro il popolo ucraino. Ma è davvero difficile convincerli del contrario, solo pochi mi seguono”.

Lukashenka e ideali comunisti a parte, Ovruch è orgogliosa delle proprie radici, che mette in mostra nel Den’ Jevropy: la festa dell’Europa, organizzata in occasione dell’arrivo del bus. Un carosello di danze popolari, con costumi e cucina locale, chiuso da un concorso letterario i cui partecipanti sono stati premiati con magliette, portachiavi ed altri gadget della missione. I partecipanti al progetto sono stati accolti come eroi venuti dall’America, neanche fossero marziani: foto, doni, omaggi, richiesta di autografi. Mancava solo la corona di fiori. C’è persino chi ha ricevuto una proposta di matrimonio.

Tutto grazioso. Ma il paradosso di Ovruch, quello vero, è estremamente più drammatico della politica. Per scoprirlo, occorre, come sempre, guardare al di là delle apparenze, e non bere la minestra che la seppur ospitale popolazione locale ti offre. Qualche buon abitante disposto a scambiare due parole durante le danze degli allievi della scuola locale di Horoshiv c’è sempre. E, tutti, rievocano lo spettro di Chornobyl (Chernobyl), distante solo una manciata di chilometri. Il disastro nucleare del 1986 ha avuto conseguenze tragiche, soprattutto qui. E non è ancora finita.

Marija Maranovska, 72 anni, spiega che tutti si ammalano, ancora oggi. Le vittime sono per lo più uomini e bambini, colpiti da tumori che decimano la popolazione. E lo Stato non aiuta, se non con risibili sussidi e una buona pacca sulle spalle. “Proprio ieri – ha dichiarato l’arzilla babushka – se n’è andato anche Ihor’ Serhejevych. L’altro ieri lo hanno trasportato all’ospedale di Zhytomir, ma era troppo tardi. Stato terminale. Morto dopo poche ore. Solo due giorni fa pranzavamo assieme. Aveva 42 anni. Prima di lui molti altri, la stessa maledetta malattia. E’ da 24 anni che va avanti così. E percepiamo solo 42 hryvnie al mese per le cure. Non sono sufficienti, ma ce le facciamo bastare”.

Sulla tragedia nessuno mai ha voluto fare luce seriamente, e, fatto ancora più grave, Ovruch e il circondario vivono una fortissima emigrazione. Gente che non ritorna, perché altrove sente di vivere in un ambiente sano, a differenza della terra natia. Una tragedia nella tragedia. “Il giorno dell’incidente abitavo a Koroven’ – racconta Mykola Hryhorovych, appositamente interrompendo il lavoro sulla legna – da quel momento tutti hanno iniziato a chiudersi in casa, nessuno usciva. I bambini non giocavano, il postino si rifiutava di lavorare. Poi i cambiamenti nel fisico delle persone e nella natura. Abbiamo smesso di bere latte e di mangiare patate, con conseguenze sulla nostra salute. La gente continua a morire. E, chi non muore, se ne va da qui, per sempre. Dicono che di tornare dove sono cresciuti non ci pensano proprio, e che qui è un inferno”.

E amara la verità che emerge dalla prima tappa dell’Eurobus. E, fatto ancor più sconcertante, a fruirne sono in stati in pochi nell’equipaggio: il collega della Polskie Radio, Tadeusz Iwański, e il sottoscritto. Tutti gli altri hanno preferito i vareniki e le danze popolari. Un coperchio colorato, che copre un’amara pietanza avvelenata.

Matteo Cazzulani

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