Attenzione / Attention / Uwaga / Увага

E' USCITO IL MIO LIBRO "LA DEMOCRAZIA ARANCIONE. STORIA DELL'UCRAINA DALL'INDIPENDENZA ALLE PRESIDENZIALI 2010", LIBRIBIANCHI EDITORE. Parte dei proventi finanzia l'Associazione AnnaViva.

venerdì 28 agosto 2009

GLI USA RINUNCIANO ALLO SCUDO SPAZIALE IN POLONIA E REPUBBLICA CECA

Con tutta probabilità, Washington rinuncerà in via definitiva al dispiegamento degli elementi di difesa missilistica in Europa Centrale. Nonostante gli accordi fossero già stati ratificati dalle parti in causa più di un anno fa.

E’ stato il quotidiano polacco Gazeta Wyborcza a dare per primo la notizia lo scorso mercoledì 26 agosto, riportando le dichiarazioni di Riki Ellison, direttore del progetto di difesa antimissilistica USA. Secondo l’esponente statunitense – una fonte attendibile stando al parere degli esperti – “i segnali inviati dai generali del Pentagono sono assolutamente chiari: l’attuale amministrazione preferisce percorrere altre strade per la difesa missilistica rispetto all’installazione di basi in Polonia e Repubblica Ceca”.

La scorsa settimana, Ellison ha preso parte a Washington ad una conferenza stampa nella quale il Pentagono ha illustrato i suoi piani futuri sulla questione, de facto modificando il percorso precedentemente intrapreso dall’amministrazione Bush, che tra l’aprile e l’agosto 2008 ha concluso con tanto di firma i relativi accordi con Praga e Varsavia.

Come ha spiegato Ellison, l’amministrazione Obama intende installare la postazione radar e le batterie di missili patriot su apposite navi militari nel Mediterraneo, oppure, preferibilmente, in altri Paesi alleati quali Turchia e Israele. Inoltre, sarà individuata un’ulteriore ubicazione nei Balcani sulla quale Ellison non avanza ipotesi.

Sebbene al momento del suo insediamento il presidente Obama aveva dichiarato che la strategia di difesa missilistica USA non sarebbe cambiata, tale dietrofront non rappresenta affatto una sorpresa. Già da tempo Washington temporeggiava sulla questione, al punto che la scorsa estate la risoluzione a riguardo è stata approvata dal Senato a strettissima maggioranza soltanto grazie al voto compatto dell’opposizione repubblicana e di parte della maggioranza democratica. Come sottolinea Ellison, nel mese di settembre la questione avrebbe dovuto essere esaminata dal Congresso, rischiando una ripresa della vita politica ancor più tormentata di quanto già non sia a causa della riforma sanitaria, che coraggiosamente Barack Obama sta realizzando nonostante una fortissima opposizione, anche in seno al suo stesso schieramento politico.

Tuttavia, la vera ratio della nuova strategia della Casa Bianca è principalmente legata alla politica estera. L’esponente USA indica come “la nuova squadra considera maggiormente gli argomenti della Russia. E’ una questione di priorità. Per molti democrats prioritario è un accordo sulla riduzione degli armamenti strategici con Mosca. Ma ciò non significa che essi siano più molli ed ingenui, solo che l’amministrazione Obama intende negoziare e cambiare la sua posizione nei confronti della Federazione Russa” dopo l’inasprimento della presidenza Bush.

Inoltre, sottolinea sempre Ellison, decisivo è stato anche l’altissimo costo dell’operazione, per intero a carico di Washington.

A più precise domande riguardo alle conseguenze che tale rinuncia apporterà alle relazioni tra Washington ed i Paesi firmatari del precedente progetto – Repubblica Ceca e Polonia – Ellison ha ribadito come l’amministrazione Obama ritenga la nuova via migliore sotto diversi punti di vista. In particolare, ha ribadito come lo scopo dello scudo spaziale sia quello di difendere il mondo occidentale da possibili attacchi missilistici provenienti da Iran e Corea del Nord. Dal punto di vista tecnico, lo spostamento degli elementi dall’Europa Centrale ad Israele ed alle penisole anatolica e balcanica non comporta alcun mutamento, sebbene gli stessi generali del Pentagono lo scorso anno in fase di trattativa a più riprese abbiano riconosciuto proprio Polonia e Repubblica Ceca come le ubicazioni ideali per la postazione radar e la batteria patriot.

Infine, Ellison ha sottolineato come buona parte del fallimento del progetto iniziale sia da addossare ai governanti polacchi, poiché qualora Varsavia avesse firmato con maggiore anticipo l’accordo con Washington, oggi l’amministrazione Obama si sarebbe trovata dinnanzi ad un progetto già avviato. Le trattative con la presidenza Bush sono state iniziate col governo del nazionalista Jarosław Kaczyński e continuate con l’attuale maggioranza del liberale Tusk, che in quanto filo europeo ha comprensibilmente temporeggiato in cerca di un maggior coinvolgimento dell’UE al progetto, accettando infine la sigla dell’accordo una volta constatata l’inconsistenza della politica estera di Bruxelles dinnanzi all’aggressione russa alla Georgia dell’agosto 2008.

Ricercando un maggior dialogo con Mosca, Washington ha concesso alla Russia la possibilità di considerarsi la vera vincitrice della questione, essendo stata la causa principale del cambiamento di strategia USA, de facto influendo nelle sue scelte in politica estera e nel rapporto con i suoi alleati.

Barack Obama finora ha dimostrato grande capacità politica e lungimiranza in altri ambiti – riforma sanitaria in primis. Resta la speranza che la sua nuova strategia estera non comprometta il ruolo che gli USA – assieme all’UE – dovrebbero avere nel mondo: diffondere e difendere la democrazia nel mondo, ovunque sia necessario. Preferibilmente con l’invincibile arma della nonviolenza.
Matteo Cazzulani

LA VERA CINA CHE SI AVVICINA

Opportunità per futuro, tecnologia, commercio e turismo. Così il Celeste Impero che fu viene presentato dalla maggior parte delle cancellerie e dei media occidentali. In realtà, si tratta di una delle ultime dittature comuniste del pianeta che copia le nostre innovazioni, reprime ogni forma di dissenso interno – ed anche esterno – e si fa beffe degli accordi internazionali.

Cina: repubblica popolare di 9.575.388 chilometri quadrati abitata da circa 2 miliardi di persone, di cui 24 mila addensate negli agglomerati urbani delle due maggiori città, Pechino e Shanghai. Se a questa descrizione geografica si aggiunge la presenza di siti culturali di notevole importanza turistica ed archeologica (come la Grande Muraglia ed il Monastero Sospeso nei pressi di Datong) e di una cucina apprezzata in tutto il mondo, è comprensibile come questo Paese possa attirare l’attenzione non solo di un qualsiasi viaggiatore – magari un poco distratto – in cerca di destinazioni esotiche per le proprie vacanze, ma anche di più attenti industriali, imprenditori ed affaristi in cerca di profitti e di nuovi mercati.
Inoltre, se si considera la straordinaria crescita economica dell’ex Celeste Impero, dovuta all’investimento del surplus del mercato interno nell’acquisto di fonti di energia e di materie prime in Asia ed Africa e nell’acquisto di pesanti quote di grandi imprese in Europa, si capisce come Pechino – titolare di un seggio permanente alle Nazioni Unite e novella protagonista della corsa allo spazio – sia già una potenza mondiale con la quale ogni Stato deve giocoforza fare i conti in ambito internazionale.

Tuttavia, tale descrizione idilliaca stride non di poco con la effettiva realtà del Paese, documentabile se in Cina ci si reca per una decina di giorni e si presta attenzione non solo alle mete turistiche di grande richiamo, ma anche alla quotidianità e agli usi ivi in voga.
Tralasciando lo sgradevole odore (un misto tra carne fritta andata a male e rifiuti organici) che si può assaporare durante i primi giorni di soggiorno presso un albergo ubicato nel mezzo degli hutong (tipiche stradine spesso non asfaltate) della capitale e l’abitudine degli autoctoni a sputare pubblicamente – solo uno stolto non capirebbe che sono tratti tipici di ogni cultura, pertanto non assumibili come dato per valutare il grado di maturità di una civiltà – subito si è colpiti dalla straordinaria densità della popolazione, perlopiù riversata nelle (per noi europei) enormi strade con mezzi di ogni genere: da automobili di bassa lega e motocicli elettrici a biciclette con annesso carrettino stracolmo di merce e di generi alimentari.
Percorrendo tragitti non turistici impressiona poi la folta presenza di toilette pubbliche – necessarie quando nella propria abitazione non si possiede il bagno – e di abitazioni in rovina che si affacciano su marciapiedi sporchi a causa degli ammassi di spazzatura (altro che il caso Napoli). Per strada spesso si è fermati da povera gente intenzionata a vendere qualsiasi tipo di merce pur di guadagnare qualche soldo da un “ricco” occidentale; simile scena si ripete nei numerosissimi centri commerciali di Pechino, dove venditori letteralmente assatanati assalgono ogni turista per rifilargli prodotti chiaramente contraffatti anche a prezzi notevolmente ribassati rispetto alla proposta iniziale – in Cina la contrattazione è un abitudine.
Subito ci si chiede come ciò sia possibile in un Paese comunista che in quanto tale distribuisce i beni “a ciascuno secondo i propri bisogni”.

La contraffazione, appunto. E’ proprio questo il punto di maggiore forza della Cina che cresce e che si impone nell’economia mondiale. A dispetto di quanto si possa immaginare – specie se si considera la grandissima abilità degli astronomi del Celeste Impero – i cinesi sono un popolo poco incline all’invenzione, handicap colmato con l’estrema abilità nel copiare ogni sorta di prodotto fabbricato da quelle popolazioni più evolute nel settore come noi occidentali. Ciò non riguarda soltanto l’ambito del vestiario – peraltro nei centri commerciali si trovano perlopiù goffe imitazioni di capi firmati – ma anche e soprattutto quello tecnologico. Significativa è stata la conversazione avuta con un giovane studente a Shanghai, il quale mi ha presentato il treno superveloce che conduce i passeggeri dall’aeroporto alla metropolitana ad altissima velocità sospeso sulle rotaie come “una pietra miliare dell’industria del Paese di tecnologia tedesca ma di produzione cinese”. In sostanza, copiata dall’industria teutonica.
Furbi loro ad imitare ciò che gli altri concepiscono. Ed altrettanto meschini nel rivendere il medesimo prodotto a prezzi inferiori grazie al basso costo di una manodopera costituita da lavoratori letteralmente schiavizzati e sottopagati, a cui le più elementari garanzie sindacali non sono affatto garantite. Ancora una volta, ci si chiede come questo sia possibile in un Paese comunista.

Volgendo all’ambito politico, molto altresì può essere compreso dalla sola visita delle mete turistiche della capitale, ad esempio la celebre Piazza Tian’ An Men. Comprendere l’estensione della piazza e l’atmosfera che in essa si respira è semplice se già si è stati a Mosca, poiché si tratta di una Krasnaja Ploščad’ (Piazza Rossa) un poco più corta e molto più afosa: ovunque sono presenti uomini delle forze dell’ordine in rigido stato di guardia, appostati in vari punti in squadre di mai meno di due unità; la simbologia del potere comunista è celebrata dal ritratto di Mao Zedong sul lato sud e dalle numerose bandiere rosse issate qua e la nei pressi del mausoleo del sopra citato autore della rivoluzione popolare (diversamente, in Russia il nuovo regime putiniano ha rimpiazzato i vessilli dell’URSS con l’aquila bicipite di eredità zarista. Cambia l’apparenza ma non la sostanza). Se si vuole visitare la piazza al suo interno, occorre superare una accurata perquisizione con tanto di controllo al metaldetector dei propri zaini e borse. Capita anche qui di incontrare qualche coraggioso mendicante, subito allontanato in malo modo dalla polizia: la povertà – ergo la reale condizione della Repubblica Popolare cinese – non va mostrata in pubblico, specie laddove si celebra la “grande” Cina e dove i “ricchi” occidentali possono osservare. E, magari, documentare e riflettere.
Nella Città Proibita, la miriade di turisti può sostare per qualche minuto presso l’ingresso principale intrattenuta da esercitazioni militari dell’esercito cinese presso i campetti da pallacanestro all’interno del sito turistico – si, avete letto bene: all’interno della Città Proibita ci sono dei campi da basket! –. Da non perdere, se si ha un po’ di tempo, l’alzabandiera della durata di trenta minuti circa.
Anche in siti turistici meno affollati il regime non lesina a dare mostra della sua “grandezza”. Nel mezzo del semicentrale parco Ri Tan si può assistere alle medesime parate militari di cui sopra senza il fastidio di essere spintonati da cinesi ansiosi di immortalare il proprio “grande” esercito e di applaudire alla loro abilità, rigorosamente armati di bandierina della Cina comunista precedentemente acquistata da un bagarino.
La situazione non cambia a Shangai. Nel centralissimo museo cittadino in Piazza Renim (Piazza del Popolo) l’entrata è gratuita. Fattore degno di plauso se solo lo spettacolo offerto non fosse l’ennesima celebrazione della “grandezza” della Cina Popolare, questa volta nelle arti e nella cultura. Le “culture delle minoranze nazionali” abilmente sono relegate in una stanzetta al terzo – ed ultimo – piano dell’edificio, casualmente chiusa da mesi per imprecisati lavori di manutenzione. Così, lo studente cinese in visita al più importante museo di arte del suo Paese può uscire con la consapevolezza che in Cina non esiste né una cultura uigura, né un popolo tibetano, né la presenza di altre religioni come Islam, ebraismo e cristianesimo al di fuori del buddismo, dell’induismo e del confucianesimo. E, ovviamente, dell’ateismo di Stato, imposto dal regime comunista.

A proposito dei musei, ecco la questione che più di tutte esemplifica l’atteggiamento cinese nei confronti della comunità internazionale. In tutto il mondo, presso i siti turistici, i musei, le biblioteche, quando non persino nelle biglietterie ferroviarie (come nella Polonia tanto criticata da molti tra i benpensanti nostrani) è riconosciuta la ISIC (International Student Identity Card), un documento UNESCO che permette ad ogni studente universitario del mondo un sensibile – e giusto – sconto. Ebbene, in Cina tale certificazione non viene riconosciuta; altresì è ammesso solo il biglietto studentesco cinese. E quando alla cassa si fa presente che l’ISIC è un documento rilasciato dall’ONU, in cui Pechino è membro permanente e si permette di porre veti su questioni di vitale importanza per il nostro pianeta – spesso concordi con gli amichetti russi – raramente si riesce a vedere riconosciuto il proprio diritto allo sconto. E’ davvero sconcertante constatare come la Cina si rifiuti di rispettare patti siglati a livello internazionale. Ed è ancor più fastidioso registrare come altri accordi siglati nel medesimo ambito – l’ONU – vengano pretesi, quando non imposti alla comunità internazionale da tali personaggi. Se in queste piccole situazioni Pechino si atteggia in questa maniera, facilmente è immaginabile quanta considerazione abbia del diritto e delle convenzioni internazionali.

Infine, due righe sulla libertà di espressione. Scontato registrare l’assenza di voci libere ed indipendenti non allineate col regime comunista sia sulla carta stampata che nelle televisioni locali, dove (come in Russia del resto) i quotidiani ed i telegiornali consacrano larghissimo spazio alla propaganda del governo, illustrando quanto di buono attuato giornalmente dalla Repubblica Popolare.
Tuttavia, oltre alle voci interne al Paese sono zittite anche quelle straniere. Social network come Twitter, Facebook e YouTube sono censurati, ed ad essi è davvero impossibile accedere. Persino i blog privati sono oscurati, così come alcuni siti di informazione come Radio Free Europe e Reuters. Solo Google funziona senza problemi, avendo accettato controlli e restrizioni imposti da Pechino. Dinnanzi a tale isolamento, comunicare con il mondo è proibitivo. E così, solo una volta tornati in occidente si ha la possibilità di raccontare quanto accade laggiù e che cos’è veramente la Repubblica Popolare cinese.

Si tratta di uno Stato autocratico che guadagna prestigio e potenza in campo economico e politico anno dopo anno. Una dittatura comunista, che malgrado il suo spiccato attivismo sulla scena del capitalismo mondiale, così come l’URSS di ieri – e la Federazione Russa di oggi – reprime i dissidenti, annichilisce i giornalisti ed onora gli accordi internazionali soltanto quando sono per essa vantaggiosi. Uno Stato socialmente lacerato da una ristretta nomenklatura di regime che possiede tutte le ricchezze, e da una massa di poveri, tenuta nell’ignoranza, nella povertà e in disperate condizioni igieniche.

Personalmente, come presidente di AnnaViva mi batto nel quotidiano per lo sviluppo della democrazia e per il rispetto dei diritti umani nel mondo ex-sovietico, soprattutto nel Caucaso e nella Russia di Putin, dove dissidenti e giornalisti indipendenti sono quotidianamente vittime di vessazioni e violenze di ogni genere. E’ una battaglia di civiltà, che riguarda la libertà di popoli a me cari dalla grandissima tradizione letteraria e culturale,.
Tuttavia, visitata la Cina sono ancora più consapevole che questo mio impegno ha un valore globale. E che sta all’Occidente – Unione Europea e Stati Uniti – difendere questi valori fondanti della dignità umana. Magari, con la creazione di una Lega delle Democrazie che per mezzo dialogo e della nonviolenza possa nel più breve tempo possibile garantire ad ogni cittadino di ogni Paese del pianeta dignità, benessere e libertà.
Matteo Cazzulani

martedì 11 agosto 2009

ALTRI DUE ATTIVISTI DEI DIRITTI UMANI UCCISI IN CECENIA

Un martedì di metà agosto. Consulto la mia quotidiana lista di agenzie di informazione – rigorosamente estere – e leggo quanto non vorrei: ennesimo omicidio di attivisti per i diritti umani in Cecenia, a circa una mese dall’uccisione di Natalia Estemirova. Si tratta della direttrice dell’ONG “Salviamo la Generazione” Zarema Sadulajeva e del marito Alik Džabrailov.

Così come accaduto alla Estemirova, i coniugi sono stati rapiti a Groznyj (capitale della Cecenia) nella giornata di lunedì 10 agosto 2009 da due uomini vestiti di nero presentatisi come “rappresentanti delle strutture del potere”. I corpi dei due 33enni, crivellati da colpi di arma da fuoco, sono stati ritrovati nel bagagliaio della loro automobile a Černoreč, non lontano dal luogo del rapimento.

La notizia è stata comunicata ai microfoni di Radio Echo Moskvy da Aleksander Čerkasov, portavoce di Memorial (l’organizzazione per i diritti umani presso cui lavorava la Estemirova), ed è stata confermata dal ministero dell’interno russo.

Mi chiedo, semplicemente, quando finirà tutto questo? Non intendo solo la continua moria di giornalisti e di attivisti per i diritti umani in una Russia sempre più autocratica.

Ma anche, soprattutto, l’indifferenza di questo occidente troppo legato al gas e agli interessi dei soliti colossi energetici. Leggi ENI, Ruhrgas, E.On, GDF Suez e Gasunie: le nuove aquile nere che impongono alle cancellerie occidentali dei rispettivi paesi – Italia, Germania, Francia e Olanda – di ignorare principi fondanti della civiltà occidentale come la tutela della democrazia ed il rispetto delle libertà dell’individuo, sacrificandoli in nome dei buoni rapporti con una Mosca sempre più imperiale, che per mezzo dell’arma Gazprom si è già garantita la nostra dipendenza energetica, e parte dei nostri gasdotti.
E pazienza se l’UE non parla ad una voce sola e se i nostri fratelli della “Nuova Europa” rischiano nuovamente di rimanere al freddo e di ritornare sotto l’incubo del dominio sovietico. Sono sogni e fatti di una storia che sentiamo estranea e lontana, presi come siamo dall’ultimo colpo di mercato e dall’ultima nomination del Grande Fratello.

Matteo Cazzulani

sabato 8 agosto 2009

QUALCHE CONSIDERAZIONE PERSONALE SULLA GUERRA IN GEORGIA DI UN ANNO FA

Era esattamente un anno fa, l’8 agosto 2008. Danzica, meravigliosa città del Baltico tradizionalmente multi culturale (polacca, tedesca, teutonica, casciuba), nonché importantissimo centro urbano per la storia dell’Europa centrale: neutrale in svariate riprese – la più nota, prima del secondo conflitto mondiale –; porto teutonico prima e polacco poi; principale località della Prussia Reale – provincia indipendente della gloriosa Respublica polacco-lituana che fu – e, soprattutto, luogo in cui hanno sede i famosissimi cantieri navali, vero e proprio simbolo della battaglia polacca per la libertà dall’oppressione comunista, culminata con la “tavola rotonda” e le elezioni semilibere del 1989, vinte dal sindacato indipendente Solidarność.

Ed è proprio nella sede centrale di Solidarność (ubicata a pochi minuti dai cantieri navali sopra citati) che per me tutto cominciò. Mi ci trovavo in visita “ufficiale” per stringere rapporti di collaborazione con AnnaViva, l’associazione di cui sono tuttora presidente. Ben presto, l’incontro diventò molto cordiale, grazie soprattutto alla gentilezza del mio interlocutore Mateusz S. (mio omonimo di cui non cito il cognome in quanto compongo questo pezzo senza averlo potuto avvisare) che, appresa la mission dell’associazione, stupito dal mio polacco, ed ancor più dal titolo della tesi di laurea triennale che mi apprestavo a redigere (sulla Respublica Polacco-Lituana, di cui sempre sopra) mi permise l’accesso ad una mole di testi da fotocopiare nel mentre della conversazione.
All’improvviso, dalla radio la notizia di scontri armati in Georgia: l’esercito russo aveva violato l’integrità territoriale del vicino, occupando le repubbliche separatiste dell’Abkhazja e dell’Ossezia del Sud, nelle quali da moltissimi anni ormai il Cremlino distribuiva passaporti russi tra la poverissima popolazione locale con l’obiettivo di destabilizzare l’area e provocarne la secessione da Tbilisi.

Era iniziata la “Guerra dei Cinque Giorni”, che comportò, stando alle diverse fonti, 228 vittime georgiane, 168 ossete e 67 tra i soldati russi. Secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato lo scorso giovedì 6 agosto, trenta mila sono gli sfollati, in larghissima parte georgiani. L’esercito di Mosca occupò buona parte del territorio georgiano, giungendo a pochi chilometri dalla capitale Tbilisi.

La tragica evoluzione del conflitto la seguii grazie ai media polacchi, assai più attenti e consapevoli della gravità della situazione rispetto a quelli italiani, intenti a riempire le prime pagine dei giornali con risultati e commenti sulle concomitanti Olimpiadi di Pechino.
Tale differente approccio lo riscontrai anche tra la popolazione. In Polonia, così come nel resto dei Paesi della tanto vituperata “Nuova Europa”, la rinata aggressività russa provocava un senso di inquietudine, ampiamente comprensibile se si tiene conto della storia di queste terre, a lungo soggiogate all’impero russo di matrice zarista, comunista e putiniana. Diversi i pareri che registrai – tra i quali quello dello stesso Mateusz di Solidarność – nei quali si sottolineava come l’aggressività oggi dimostrata nei confronti della Georgia domani avrebbe potuto essere rivolta verso Ucraina e Bielorussia, peraltro già vittime ogni inverno dei ricatti energetici di Mosca sul prezzo del gas e diretti vicini di Varsavia. Che, piaccia o meno ad alcuni benpensanti nostrani, appartiene politicamente, storicamente e culturalmente all’Unione Europea.

A porre fine al conflitto, ufficialmente fu l’intervento diplomatico dell’UE, che per mezzo dell’allora presidente di turno Nicolas Sarkozy negoziò un accordo di pace secondo cui l’esercito russo avrebbe dovuto abbandonare i territori occupati. L’atteggiamento dell’inquilino dell’Eliseo fu, però, troppo morbido, diversamente da quanto richiesto dai presidenti di Polonia, Paesi Baltici ed Ucraina, ben più solidali col collega georgiano Saakašvili: Mosca fu solo redarguita verbalmente, e così si sentì legittimata a ritirare i propri eserciti dalla Georgia con tutta calma, riposizionandoli nelle repubbliche separatiste dell’Abkhazja e dell’Ossezia del Sud. Che, più tardi, dichiararono la propria indipendenza, ad oggi riconosciuta dalle sole Federazione Russa e Nicaragua. Inoltre, NATO ed UE ignorarono le legittime aspirazioni di Tbilisi ad entrare nella comunità euroatlantica per sottrarsi all’imperialismo russo e per svilupparsi sul piano politico ed economico, e ristabilirono piena collaborazione con Mosca come se nulla fosse successo.

Ad un anno dall’accaduto, la partita non è ancora chiusa. Lo hanno dimostrato le celebrazioni in commemorazione della “Guerra dei cinque giorni” ad un anno dal suo scoppio, organizzate sia in Georgia che in Ossezia Meridionale.

A Tbilisi, per qualche minuto la vita quotidiana si è fermata. In tutte le chiese le campane hanno suonato a lutto, e nella strada principale della capitale si è riversata una folla con bandiere georgiane e dell’UE e con striscioni con scritte quali “Stop alla Russia” e “Basta con l’occupazione russa”.
A Gori, città bombardata incessantemente per qualche settimana dai russi al pari delle altre quaranta cittadine della regione, nella piazza centrale sono state incollate su appositi pannelli fotografie che ritraggono non solo i volti delle vittime e degli sfollati, ma anche i danni materiali causati dall’invasione russa: case abbattute, campagne saccheggiate, strade dissestate.
Nei cimiteri sono stati accesi i “fuochi dell’unità umana”, a sottolineare come la morte violenta sia una tragedia che supera le differenti appartenenze nazionali.
La sera, in entrambe le città sono stati organizzati dei concerti dal titolo “Per l’occupazione russa”, ai quali il presidente Mikheil Saakašvili ha invitato il corpo diplomatico occidentale accreditato in Georgia.

Anche a Cchinvali, capitale dell’Ossezia del Sud, il conflitto è commemorato per cinque giorni (tanto quanto è durata la guerra). Tuttavia, il presidente della repubblica separatista Eduard Kokojtyj e quello della Federazione Russa Dmitrij Medvedev sono concordi nel monopolizzare l’attenzione delle celebrazioni sulla responsabilità georgiana dell’accaduto, addossando a Tbilisi non solo la responsabilità dello scontro, ma anche continue provocazioni che in questi giorni avrebbero avuto luogo per riaprire la contesa.
Peccato che tali, presunte provocazioni georgiane siano state smentite in toto da alcuni media indipendenti come Radio Free Europe e dagli stessi osservatori UE – a cui l’ingresso in Ossezia del Sud è continuamente vietato dall’esercito del Cremlino – i quali hanno riportato come a rialzare la tensione in questi giorni siano stati i militari di Mosca con continue incursioni in territorio georgiano.

Tali fatti sono stati confermati anche in via ufficiale da personalità del governo di Tbilisi. L’ambasciatore polacco in Polonia Konstantin Kavatardze ha dichiarato che la Russia intende provocare un altro conflitto con la Georgia, e si è appellato alla Comunità Internazionale affinché impedisca la riedizione del conflitto. Il presidente Mikheil Saakašvili in un’intervista alle televisioni BBC e Imedi ha dichiarato che “Mosca sta continuamente violando il diritto internazionale e l’integrità territoriale georgiana”, specificando nuovamente che “l’ingresso nella NATO del [suo, n.d.a.] Paese è fondamentale per evitarne la disintegrazione e la capitolazione per mano del vicino russo”.

Richieste che nuovamente rischiano di essere ignorate dall’Europa occidentale, troppo impegnata a firmare accordi energetici con l’orso russo e a varare nuovi gasdotti che accentuano la nostra dipendenza energetica da Mosca.
E pazienza se la Georgia, il Caucaso, l’Ucraina e la Bielorussia non ce la faranno a sottrarsi dall’impero russo. Sono territori la cui comunanza – quando non vera e propria appartenenza nel caso di Kyiv e Minsk – con la cultura europea poco importa ad un popolo di allenatori, veline ed aspiranti inquilini del “Grande Fratello”.
Matteo Cazzulani

giovedì 6 agosto 2009

E’ L’AFFARISTA RUSSO VADIM BROVCEV IL NUOVO PREMIER DELL’OSSEZIA DEL SUD

Come comunicato dal portale di informazione on line Civil Georgia e ribattuto dal’agenzia IAR, a Cchinvali il presidente filorusso Eduard Kokojtyj – autoproclamatosi tale da più di un anno – ha proposto e insediato come nuovo premier dell’Ossezia del sud l’uomo d’affari a lui fedele Vadim Brovcev.

Il nuovo primo ministro, di nazionalità russa, sostituisce Aslanbek Bulacev, ex funzionario dei servizi segreti di Mosca divenuto premier dell’Ossezia del Sud lo scorso ottobre su esplicita volontà di Mosca di avere un proprio uomo a Cchinvali durante i primi di anni di indipendenza della regione, riconosciuta, oltre che dal Cremlino, dalla sola Nicaragua.

La Russia aveva promesso alla neoindipendente Ossezia del Sud un aiuto economico pari a 220 milioni di euro, di cui solo 20 sono effettivamente pervenuti nelle casse di Cchinvali. Tale promessa mancata ha causato la sfiducia a Bulacev nelle elezioni parlamentari dello lo scorso giugno.

Nella sostanza nulla cambia nella repubblica georgiana strappata a Tbilisi lo scorso agosto. La nomina di un’altra personalità legata a Kokojtyj, e quindi al Cremlino, consente alla Russia di mantenere il controllo politico, economico e militare su una regione delicata del Caucaso.

Soprattutto dopo le ennesime provocazioni nei confronti della Georgia, che rischiano di produrre una replica dell’invasione che circa un anno fa videro l’esercito della Federazione Russa violare l’integrità territoriale georgiana dinnanzi ad una comunità occidentale colpevolmente inerme e silente.
Matteo Cazzulani

martedì 4 agosto 2009

GLI OSSERVATORI UE: E’ MOSCA A RIALZARE LA TENSIONE CON TBILISI

Nessuna voce internazionale sul luogo ha confermato gli spari verso Cchinvali (la capitale dell’Ossezia del Sud) per i quali Tbilisi sabato 1 agosto è stata accusata dal Ministero della Difesa russo, che con una nota ufficiale ha palesato l’intenzione di “ricorrere all’uso della forza se la Georgia non porrà fine alle provocazioni verso l’Ossezia del Sud e l’Abkhazja”. E da martedì 4 agosto, in territorio osseto meridionale l’esercito russo inizia “esercitazioni preventive”, palesemente in funzione anti-georgiana.

Peccato che la Commissione Europea ha dichiarato di non sapere nulla in merito agli atti ostili da parte della Georgia. Ed anche gli osservatori UE hanno evidenziato come “non c’è stata alcuna azione militare verso la repubblica separatista, ed il diffondersi di questa notizia è a sua volta una provocazione”.

Come se non bastasse, in un’intervista ad una radio polacca gli abitanti delle campagne di Nikozi ed Ergneti (poco distanti da Cchinvali) hanno negato le azioni militari di cui sopra, aggiungendo altresì che qualora spari si fossero verificati, la loro origine sarebbe stata sicuramente moscovita, dal momento in cui “sono le nostre [loro, n.d.a.] case ad essere di continuo sotto il fuoco proveniente dai territori in cui staziona l’esercito russo”. Tanto è vero che, per timore di ulteriori provocazioni, Tbilisi ha incaricato la propria polizia e la Guardia Nazionale di presidiare strade, ponti e viadotti dell’area.
Anche gli abitanti delle campagne ossete hanno criticato l’atteggiamento dei soldati russi, dichiarando ai giornalisti del servizio di informazione Civil Georgia (www.civil.ge/eng) che “gli occupanti da Mosca abbattono chiese e monumenti storici, cancellano ogni scritta in georgiano persino dagli affreschi nei monasteri, e compiono atti vandalici presso i cimiteri del luogo”.

Non a caso, la notizia è stata fatta circolare dal Cremlino a circa un anno dall’attacco alla Georgia, attuato per strappare a Tbilisi il controllo delle due regioni dell’Abkhazja e dell’Ossezia del Sud, nelle quali dal ’91 Mosca ha distribuito a pioggia propri passaporti per russificare la popolazione locale e per legittimare ogni eventuale futuro intervento militare volto all’annessione di quei territori. Dopo l’aggressione della scorsa estate, a riconoscere l’indipendenza delle due lande in questione sono state solamente la Federazione Russa ed il Nicaragua, Paese notoriamente confinante con l’area caucasica.

Pronta è arrivata la reazione georgiana per voce del Capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale Ekaterina Tkečelašvili, la quale ha ricordato come Mosca “si sta comportando oggi nella medesima maniera di un anno fa, quando si sentì legittimata alla guerra col vicino”, chiedendo all’occidente di inviare al Cremlino un chiaro segnale che eviti il reiterarsi degli eventi dell’agosto 2008.
Il giorno successivo, anche il Ministero degli Esteri Grigol Vašadze ha invitato la Comunità internazionale “a supportare ogni azione che possa prevenire il ripetersi dell’aggressione dell’esercito russo in territorio georgiano”, sottolineando che il Cremlino è responsabile di “azioni militari mirate alla destabilizzazione dell’intera area del Caucaso”, dall’Abkhazja alla Cecenia.
Invece, il Presidente Mikheil Saakašvili a sua volta ha spiegato come la vera intenzione della Russia sia quella di deporlo dal vertice del Paese (ricordando le continue minacce e gli insulti personali inviatigli dall’attuale primo ministro russo Vladimir Putin), aggiungendo che la Georgia non cercherà in alcun modo il conflitto armato con Mosca.
Inoltre, pochi giorni prima del nuovo caso diplomatico le autorità georgiane hanno comunicato l’intenzione da parte russa di costruire un aeroporto militare nella regione di Achalgori, per la cui realizzazione sarebbe necessario l’abbattimento del monastero femminile di San Aleksej.

Come se quanto scritto finora non bastasse, martedì 4 agosto il presidente dell’Ossezia del Sud Eduard Kokojtyj ha comunicato in via ufficiale all’agenzia AFP/Interfax che le truppe militari russe realizzeranno esercitazioni preventive in territorio osseto meridionale fino al confine con la Georgia “per garantire la sicurezza e mantenere la situazione sotto controllo”. Inoltre, ha appoggiato le dichiarazioni del Ministero della Difesa di Mosca, giustificando il “diritto russo all’uso della forza in caso di provocazioni georgiane”.

Dinnanzi a questa caldissima situazione che nuovamente rischia di esplodere, resta l’autorevole parere della maggior parte degli esperti militari, secondo cui agosto è il mese ideale per iniziare un conflitto nel Caucaso.
E resta anche il rammarico per l’impossibilità da parte degli osservatori internazionali di essere arbitri della contesa, dal momento che il governo osseto filo-russo e l’esercito del Cremlino vietano loro l’ingresso nella regione. In barba alla risoluzione di pace negoziata da Mosca con l’allora presidente di turno UE Nicolas Sarkozy. E a tutti gli sforzi di chi, inutilmente, cerca di negare il ritorno dell’impero russo.
Matteo Cazzulani