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E' USCITO IL MIO LIBRO "LA DEMOCRAZIA ARANCIONE. STORIA DELL'UCRAINA DALL'INDIPENDENZA ALLE PRESIDENZIALI 2010", LIBRIBIANCHI EDITORE. Parte dei proventi finanzia l'Associazione AnnaViva.

sabato 8 agosto 2009

QUALCHE CONSIDERAZIONE PERSONALE SULLA GUERRA IN GEORGIA DI UN ANNO FA

Era esattamente un anno fa, l’8 agosto 2008. Danzica, meravigliosa città del Baltico tradizionalmente multi culturale (polacca, tedesca, teutonica, casciuba), nonché importantissimo centro urbano per la storia dell’Europa centrale: neutrale in svariate riprese – la più nota, prima del secondo conflitto mondiale –; porto teutonico prima e polacco poi; principale località della Prussia Reale – provincia indipendente della gloriosa Respublica polacco-lituana che fu – e, soprattutto, luogo in cui hanno sede i famosissimi cantieri navali, vero e proprio simbolo della battaglia polacca per la libertà dall’oppressione comunista, culminata con la “tavola rotonda” e le elezioni semilibere del 1989, vinte dal sindacato indipendente Solidarność.

Ed è proprio nella sede centrale di Solidarność (ubicata a pochi minuti dai cantieri navali sopra citati) che per me tutto cominciò. Mi ci trovavo in visita “ufficiale” per stringere rapporti di collaborazione con AnnaViva, l’associazione di cui sono tuttora presidente. Ben presto, l’incontro diventò molto cordiale, grazie soprattutto alla gentilezza del mio interlocutore Mateusz S. (mio omonimo di cui non cito il cognome in quanto compongo questo pezzo senza averlo potuto avvisare) che, appresa la mission dell’associazione, stupito dal mio polacco, ed ancor più dal titolo della tesi di laurea triennale che mi apprestavo a redigere (sulla Respublica Polacco-Lituana, di cui sempre sopra) mi permise l’accesso ad una mole di testi da fotocopiare nel mentre della conversazione.
All’improvviso, dalla radio la notizia di scontri armati in Georgia: l’esercito russo aveva violato l’integrità territoriale del vicino, occupando le repubbliche separatiste dell’Abkhazja e dell’Ossezia del Sud, nelle quali da moltissimi anni ormai il Cremlino distribuiva passaporti russi tra la poverissima popolazione locale con l’obiettivo di destabilizzare l’area e provocarne la secessione da Tbilisi.

Era iniziata la “Guerra dei Cinque Giorni”, che comportò, stando alle diverse fonti, 228 vittime georgiane, 168 ossete e 67 tra i soldati russi. Secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato lo scorso giovedì 6 agosto, trenta mila sono gli sfollati, in larghissima parte georgiani. L’esercito di Mosca occupò buona parte del territorio georgiano, giungendo a pochi chilometri dalla capitale Tbilisi.

La tragica evoluzione del conflitto la seguii grazie ai media polacchi, assai più attenti e consapevoli della gravità della situazione rispetto a quelli italiani, intenti a riempire le prime pagine dei giornali con risultati e commenti sulle concomitanti Olimpiadi di Pechino.
Tale differente approccio lo riscontrai anche tra la popolazione. In Polonia, così come nel resto dei Paesi della tanto vituperata “Nuova Europa”, la rinata aggressività russa provocava un senso di inquietudine, ampiamente comprensibile se si tiene conto della storia di queste terre, a lungo soggiogate all’impero russo di matrice zarista, comunista e putiniana. Diversi i pareri che registrai – tra i quali quello dello stesso Mateusz di Solidarność – nei quali si sottolineava come l’aggressività oggi dimostrata nei confronti della Georgia domani avrebbe potuto essere rivolta verso Ucraina e Bielorussia, peraltro già vittime ogni inverno dei ricatti energetici di Mosca sul prezzo del gas e diretti vicini di Varsavia. Che, piaccia o meno ad alcuni benpensanti nostrani, appartiene politicamente, storicamente e culturalmente all’Unione Europea.

A porre fine al conflitto, ufficialmente fu l’intervento diplomatico dell’UE, che per mezzo dell’allora presidente di turno Nicolas Sarkozy negoziò un accordo di pace secondo cui l’esercito russo avrebbe dovuto abbandonare i territori occupati. L’atteggiamento dell’inquilino dell’Eliseo fu, però, troppo morbido, diversamente da quanto richiesto dai presidenti di Polonia, Paesi Baltici ed Ucraina, ben più solidali col collega georgiano Saakašvili: Mosca fu solo redarguita verbalmente, e così si sentì legittimata a ritirare i propri eserciti dalla Georgia con tutta calma, riposizionandoli nelle repubbliche separatiste dell’Abkhazja e dell’Ossezia del Sud. Che, più tardi, dichiararono la propria indipendenza, ad oggi riconosciuta dalle sole Federazione Russa e Nicaragua. Inoltre, NATO ed UE ignorarono le legittime aspirazioni di Tbilisi ad entrare nella comunità euroatlantica per sottrarsi all’imperialismo russo e per svilupparsi sul piano politico ed economico, e ristabilirono piena collaborazione con Mosca come se nulla fosse successo.

Ad un anno dall’accaduto, la partita non è ancora chiusa. Lo hanno dimostrato le celebrazioni in commemorazione della “Guerra dei cinque giorni” ad un anno dal suo scoppio, organizzate sia in Georgia che in Ossezia Meridionale.

A Tbilisi, per qualche minuto la vita quotidiana si è fermata. In tutte le chiese le campane hanno suonato a lutto, e nella strada principale della capitale si è riversata una folla con bandiere georgiane e dell’UE e con striscioni con scritte quali “Stop alla Russia” e “Basta con l’occupazione russa”.
A Gori, città bombardata incessantemente per qualche settimana dai russi al pari delle altre quaranta cittadine della regione, nella piazza centrale sono state incollate su appositi pannelli fotografie che ritraggono non solo i volti delle vittime e degli sfollati, ma anche i danni materiali causati dall’invasione russa: case abbattute, campagne saccheggiate, strade dissestate.
Nei cimiteri sono stati accesi i “fuochi dell’unità umana”, a sottolineare come la morte violenta sia una tragedia che supera le differenti appartenenze nazionali.
La sera, in entrambe le città sono stati organizzati dei concerti dal titolo “Per l’occupazione russa”, ai quali il presidente Mikheil Saakašvili ha invitato il corpo diplomatico occidentale accreditato in Georgia.

Anche a Cchinvali, capitale dell’Ossezia del Sud, il conflitto è commemorato per cinque giorni (tanto quanto è durata la guerra). Tuttavia, il presidente della repubblica separatista Eduard Kokojtyj e quello della Federazione Russa Dmitrij Medvedev sono concordi nel monopolizzare l’attenzione delle celebrazioni sulla responsabilità georgiana dell’accaduto, addossando a Tbilisi non solo la responsabilità dello scontro, ma anche continue provocazioni che in questi giorni avrebbero avuto luogo per riaprire la contesa.
Peccato che tali, presunte provocazioni georgiane siano state smentite in toto da alcuni media indipendenti come Radio Free Europe e dagli stessi osservatori UE – a cui l’ingresso in Ossezia del Sud è continuamente vietato dall’esercito del Cremlino – i quali hanno riportato come a rialzare la tensione in questi giorni siano stati i militari di Mosca con continue incursioni in territorio georgiano.

Tali fatti sono stati confermati anche in via ufficiale da personalità del governo di Tbilisi. L’ambasciatore polacco in Polonia Konstantin Kavatardze ha dichiarato che la Russia intende provocare un altro conflitto con la Georgia, e si è appellato alla Comunità Internazionale affinché impedisca la riedizione del conflitto. Il presidente Mikheil Saakašvili in un’intervista alle televisioni BBC e Imedi ha dichiarato che “Mosca sta continuamente violando il diritto internazionale e l’integrità territoriale georgiana”, specificando nuovamente che “l’ingresso nella NATO del [suo, n.d.a.] Paese è fondamentale per evitarne la disintegrazione e la capitolazione per mano del vicino russo”.

Richieste che nuovamente rischiano di essere ignorate dall’Europa occidentale, troppo impegnata a firmare accordi energetici con l’orso russo e a varare nuovi gasdotti che accentuano la nostra dipendenza energetica da Mosca.
E pazienza se la Georgia, il Caucaso, l’Ucraina e la Bielorussia non ce la faranno a sottrarsi dall’impero russo. Sono territori la cui comunanza – quando non vera e propria appartenenza nel caso di Kyiv e Minsk – con la cultura europea poco importa ad un popolo di allenatori, veline ed aspiranti inquilini del “Grande Fratello”.
Matteo Cazzulani

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