Attenzione / Attention / Uwaga / Увага

E' USCITO IL MIO LIBRO "LA DEMOCRAZIA ARANCIONE. STORIA DELL'UCRAINA DALL'INDIPENDENZA ALLE PRESIDENZIALI 2010", LIBRIBIANCHI EDITORE. Parte dei proventi finanzia l'Associazione AnnaViva.

sabato 28 novembre 2009

LA CAMPAGNA PRESIDENZIALE UCRAINA ENTRA NEL VIVO. ANCHE JUŠČENKO PRESENTA IL SUO PROGRAMMA ELETTORALE

Nonostante la febbre suina stia mantenendo bassi i toni del confronto, la corsa per la presidenza in Ucraina de facto è iniziata. I maggiori candidati che il prossimo mese di gennaio correranno nel primo turno sono il filo russo Vyktor Janukovyč, l’attuale premier Julija Tymošenko, l’ex speaker del parlamento Arsenij Jacenjuk e l’attuale presidente filo occidentale Vyktor Juščenko.

Nella giornata di lunedi 23 novembre 2009, Vyktor Juščenko, supportato dal suo partito Naša Ukraina (Nostra Ucraina) ha presentato la sua candidatura per mezzo di un discorso televisivo trasmesso dal primo canale e da un maxischermo installato in Piazza dell'Indipendenza (il famoso Majdan Nežaleznosti). Il leader della rivoluzione arancione – grazie alla quale Kyiv nel 2004 ruppe finalmente con la sudditanza politica da Mosca – ha espresso parere positivo sui cinque anni di sua presidenza, promettendo di continuare il suo impegno politico affinché il Paese possa al più presto perfezionare una piena integrazione con l'occidente.
Difatti, nel programma di Juščenko è chiaramente indicato che "gli ucraini non devono perdere la speranza in un vicino ingresso nella NATO e nell'UE" sebbene, come dichiarato dallo stesso presidente, "la via per l'UE non è cosparsa di zucchero, ma di tanto carbone", sottolineando con tale metafora quanto duro sia ancora il percorso che Kyiv ha da percorrere nei prossimi anni. L'esempio da seguire, sempre stando a quanto dichiarato dall’attuale presidente, è quello dei paesi dell'Europa centrale che hanno a lungo combattuto per la propria libertà da Mosca e che sono entrati nella NATO, in primis Polonia, Romania, Ungheria e Slovacchia.

La discesa in campo di Juščenko è stata anticipata esattamente un mese prima da quella dell'attuale premier Julia Tymošenko, un tempo sua alleata nella già citata rivoluzione arancione (a seguito della quale Juščenko, eletto presidente, nominò la Tymošenko primo ministro). Sempre in Majdan Nezaležnosti ed in diretta sul primo canale televisivo statale, e sulla tv privata Kanal 5, alla presenza di circa 100 mila persone il partito Batkivščyna (Patria) ha lanciato pubblicamente la candidatura di Lady Ju (così è definita in Ucraina). La quale, dopo l’investitura ufficiale per acclamazione e l’appoggio pubblico annunciato dal palco dal primo presidente dell’ucraina libera Leonid Kravčuk e da altri volti noti della politica del Paese, ha tenuto un discorso fortemente improntato sui valori democratici e liberali della rivoluzione arancione, di cui si ritiene unica erede dopo il “tradimento” [secondo il suo punto di vista, n.d.a.] del presidente Juščenko, fortemente criticato per aver cercato di ostacolare i successi del suo governo imponendo continui veti.
Il programma della Tymošenko prevede anche aiuti agli strati sociali più svantaggiati, lotta alla corruzione e ai monopoli degli oligarchi – sopratutto dell'Ucraina orientale e filo russi – che ostacolano lo sviluppo del Paese, tuttavia senza contemplare alcuna chiara indicazione circa la legittima aspirazione occidentale che spetterebbe a Kyiv, finalmente libera dall'influenza russa dopo secoli di zarismo, comunismo e putinismo.

Pochi giorni prima era stato il turno dell'attuale leader dell'opposizione, già primo ministro dal 2005 al 2007, Vyktor Janukovyč. Supportato dal suo Partito delle Regioni (Partija Regioniv) ha rilanciato la corsa alla presidenza cinque anni dopo essere stato confitto per la medesima carica dal fronte arancione di Juščenko/Tymošenko nel 2004. Il suo programma elettorale prevede sulla carta l’integrazione del Paese all'occidente, ma de facto è noto a tutti il suo orientamento filo russo, volto a riagganciare Kyiv all'orbita di Mosca. Non a caso la sua candidatura è caldamente supportata dal duo Putin/Medvedev. Dal punto di vista interno, il candidato gradito al Cremlino promette aiuti agli oligarchi dell'est del paese ed ammortizzatori sociali per gli operai delle fabbriche, in particolare di quelli della regione del Donbass, dove il Partito delle Regioni ha la sua roccaforte elettorale.

Oltre ai tre sopra citati, quarto candidato è l'ex speaker della Verchovna Rada (parlamento) Arsenij Jacenjuk, a cui favore giocano la giovane età (35 anni) ed un programma improntato quasi in toto sulla lotta alla corruzione. Supportato dal Fronte del Cambiamento (Front Zmin, partito da lui fondato con altri fuoriusciti da Naša Ukraina), Jacenjuk ha tuttavia una visione di politica estera improntata al mantenimento di buoni rapporti con la Russia, a cui inevitabilmente sacrifica ogni forma di vocazione occidentale.

Secondo gli ultimi sondaggi, Janukovyč è dato in testa con circa il 30% dei consensi, incalzato dalla Tymošenko con il 20%. Seguono Jacenjuk con il 13 e, purtroppo, l'attuale presidente Juščenko con il 5. Successivamente, altri candidati minori con percentuali inferiori.
Alla luce di questi risultati, necessario sarebbe il secondo turno, in occasione del quale la Tymošenko e Juščenko potrebbero – e dovrebbero – accantonare i propri dissidi interni e ricreare un'alleanza arancione in grado di battere il favorito candidato filo russo e garantire all'Ucraina la speranza di un futuro di progresso e sviluppo, che Kyiv può raggiungere solo per mezzo di un avvicinamento a Bruxelles. E non a Mosca.

Matteo Cazzulani

martedì 17 novembre 2009

NASCE L’ESERCITO DELLE TRE NAZIONI. KYIV SI AVVICINA ALL’EUROPA

Una comune unità militare sarà creata dalle truppe polacche, lituane ed ucraine per fronteggiare missioni di pace nel mondo sotto l’egida UE, NATO e ONU. Così è stato dichiarato in una lettera di intenzione firmata nella giornata di lunedì 16 novembre presso il quartier generale NATO a Bruxelles dai ministri della difesa di Polonia, Lituania e Ucraina.

La nuova brigata avrà sede operativa a Lublino (Polonia sud-orientale) e sarà costituita da 4,5 mila uomini divisi in tre battaglioni che, pur stazionando ciascuno nel proprio Paese di provenienza, si incontreranno periodicamente per esercitazioni comuni a partire dal 2013. Denominazione ufficiale del corpo militare sarà LiPolUkrBrig, ma esso è gia stato ribattezzato “l’esercito delle Tre Nazioni” in quanto costituito da quei popoli che – assieme alla Bielorussia – per circa tre secoli dal 1569 al 1795 hanno vissuto uniti in una comune entità statale – la Rzeczpospolita Wielu Narodów (Repubblica delle Nazioni) – quasi totalmente ignorata dai benpensanti della Vecchia Europa, secondo cui il continente finisce ancora laddove venti anni fa sorgeva la cortina di ferro.

Più che di una rievocazione storica, la “brigata delle Tre Nazioni” rappresenta l’ennesimo, concreto progetto promosso da Varsavia e Vilna nell’ambito della politica di partenariato orientale, con la quale l’Europa intende avviare una intensa collaborazione con alcuni Stati dell’Europa Orientale (Bielorussia, Ucraina, Georgia, Armenia e Adzerbajdžan) in vista di una loro futura – quanto auspicata – integrazione. Simili iniziative precedenti furono nel 2001 il LiPolBat (battaglione lituano-polacco) ed il PolUkrBat (battaglione polacco-ucraino), che ancora oggi opera attivamente in Kosovo nella missione di pace ONU.

L’avvicinamento dell’esercito ucraino all’occidente è un’idea per rinvigorire l’ingresso di Kyiv nell’alleanza atlantica, obiettivo che il governo polacco di Donald Tusk, a forte vocazione liberale ed europeista, intende raggiungere possibilmente con politiche sotto l’egida UE.

“L’idea di una comune brigata piace a tutti i membri dell’alleanza. Persino quelli più scettici nei confronti di una pronta integrazione dell’Ucraina nella NATO non hanno ragione alcuna di opporsi al rafforzamento della nostra cooperazione in missioni di pace” ha dichiarato il vice ministro alla difesa polacco Stanisław Komorowski. Gli fa eco il capo della diplomazia ucraina Borys Tarasiuk dichiarando che “l’idea di una comune brigata è una ottima cosa in un periodo in cui la decisione sulla nostra [ucraina, n.d.a.] membership nella NATO è stata rinviata di qualche anno”.

Tuttavia, la partecipazione ucraina ad una comune unità militare assieme a due paesi NATO quali Polonia e Lituania, oltre alle croniche isterie di Mosca potrebbe raccogliere anche l’opposizione di alcuni Paesi della Vecchia Europa tradizionalmente filo russi e sordi dinnanzi alle legittime ragioni dei membri UE dell’Europa Centrale, fino a venti anni fa politicamente sottomessi alla Russia comunista. Inoltre, a Kyiv il clima di campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali del prossimo gennaio non aiuta lo sviluppo di un sereno dibattito, né coraggiose prese di posizione a favore da parte di candidati di peso. “Se presidente diventerà il filo russo Janukowyč la realizzazione del progetto potrà incontrare dei problemi nella sua realizzazione. Ma se a vincere sarà l’attuale premier Julia Tymošenko, allora continuerà”, spiega Borys Tarasiuk.

Affinché la brigata diventi realtà è necessario un accordo internazionale tra gli stati interessati che, alla luce di quanto appena illustrato, difficilmente sarà ratificato dall’Ucraina prima del termine elettorale di gennaio. Come dichiarato da alcuni diplomatici polacchi “coinvolgendo Kyiv nel progetto della brigata intendiamo spingere gli ucraini ad una riflessione sulla loro strategia a lungo termine. Sarebbe bene che per un attimo escano dalle logiche della campagna elettorale e pensino al loro futuro”.
Un auspicio del tutto condivisibile, affinché l’Ucraina oggi – ed una Bielorussia libera domani – possano ritornare nella loro vera famiglia politico-culturale d’origine, ovvero l’Europa. E non Mosca, con buona pace dei – tanti – filo putiniani dell’Europa Occidentale.

Matteo Cazzulani

SVEZIA E FINLANDIA DANNO IL VIA AL NORD STREAM

Cadute le ultime perplessità di Stoccolma ed Helsinki, che hanno siglato l’accordo per il transito del gasdotto di Gazprom che attraverso i fondali delle acque territoriali svedesi e finlandesi collegherà direttamente Russia e Germania, evitando i Paesi Baltici e la Polonia.

Nella giornata di giovedì 5 novembre 2009 il governo svedese ha dato il proprio via libera al transito del gasdotto settentrionale di Gazprom. A sorpresa, ed incoerentemente con quanto finora attuato, il ministro per l’ambiente di Stoccolma Andreas Calgren ha dichiarato che “il no svedese al passaggio del Nord Stream sarebbe contrario al diritto internazionale”. Peccato che solo pochi mesi fa era proprio questa stessa persona a guidare il fronte “ecologista” contrario alla installazione di un gasdotto sul fondale del Baltico, ove ancora si trovano residui bellici e relitti di navi affondate.

Il costo dell’opera ammonta a 8 miliardi di euro, che saranno versati dalle aziende che possiedono quote nel consorzio Nord Stream – con sede in Svizzera e il cui presidente è l’ex Cancelliere tedesco socialdemocratico Gerard Schroder, ora dipendente diretto di zar Putin – ovvero la russa Gazprom per il 51%, le tedesche E.ON e BASF per il 20, e per il resto alla olandese Gasunie e alla francese Suez-Gaz de France.

La vera vittima di questo progetto politico di cui il Cremlino si serve per colpire i propri avversari politici e per estendere la propria influenza sull’Europa è la Polonia, che risulta aggirata e che sarà costretta ad acquistare gas proveniente dall’orientale russa presso l’occidentale Germania. Un paradosso che va di pari passo con la firma dei nuovi accordi tra il colosso del gas polacco PGNiG e Gazprom per il rinnovo delle forniture di oro blu, in cui il monopolista moscovita ha imposto un aumento del prezzo senza promettere l’ampliamento del Jamal, il gasdotto che collega via terra la Russia alla Polonia. Il quale, alla luce del via libera al Nord Stream, risulta poco vantaggioso e meno importante per Mosca, che così costringe Varsavia a fronteggiare alti costi per il gas e a dipendere per intero dalle forniture russe via Germania.

Tale decisione ha suscitato la sorpresa delle autorità polacche. “Stiamo lavorando d un comunicato a riguardo” ha comunicato al quotidiano Gazeta Wyborcza Piotr Paszkowski del Ministero degli Affari Esteri. Che ha illustrato anche come la decisione svedese abbia un altissimo valore simbolico dal momento in cui questo Paese ora detiene la presidenza di turno dell’UE.

A poche ore dal via libera di Stoccolma è seguito anche quello di Helsinki. Due settimane prima anche la Danimarca aveva comunicato il proprio assenso. Ora il Nord Stream necessita soltanto della ratifica ufficiale di Germania e Russia, una pura formalità dal momento in cui questi due Paesi sono i reali costruttori del progetto.

Purtroppo, dopo il dietrofront della Svezia, Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania non potranno più fare alcunché per bloccare il gasdotto, dal momento in cui il progetto del Cremlino non interessa le acque territoriali di questi Paesi, che coerentemente e coraggiosamente hanno condotto una giusta battaglia per il rafforzamento energetico dell’Europa, contro la dipendenza dei singoli 27 Paesi UE dall’autocratica Russia di Putin.

A pochissime ore dal patto Tusk-Sarkozy, con cui Polonia e Francia hanno pianificato la creazione di un esercito unico europeo, è davvero scoraggiante constatare come ancora una volta l’idea di Europa Unita sia letteralmente collassata dinnanzi all’attrattiva del gas di Putin, che ha portato nuovamente la Vecchia Europa ad abbandonare la Nuova Europa, disinteressandosi delle sue sorti. Davvero agghiacciante anche constatare come tale fatto accade a pochi giorni dal 9 novembre, ricorrenza del ventennale della caduta del Muro di Berlino. Una barriera che, a quanto mare, nelle menti dei politici dell’Europa Occidentale ancora esiste.

Matteo Cazzulani

venerdì 6 novembre 2009

PATTO TUSK-SARKOZY, NASCE L’UE MILITARE

L’iniziativa comune di Varsavia e Parigi per creare un esercito unico europeo è stata varata in via definitiva lo scorso mercoledì 4 novembre in occasione del vertice bilaterale tra Francia e Polonia. Così, Donald Tusk e Nicolas Sarkozy – rispettivamente premier del governo polacco e presidente della repubblica francese – hanno dato prova di reale europeismo.

Dopo la politica di partenariato orientale – intrapresa assieme alla Svezia – per migliorare il dialogo con alcuni paesi dell’Europa orientale (Ucraina, Bielorussia, Adzerbajdzan, Armenia e Georgia) e facilitarne l’integrazione nelle strutture UE, la Dichiarazione sulla Difesa Comune Europea è l’ennesima iniziativa di Varsavia per contribuire attivamente al consolidamento e al rafforzamento dell’Unione Europea. In questo caso, partner privilegiato è la Francia di Nicolas Sarkozy, con cui il premier Donald Tusk – autore di una politica apertamente filoeuropea in discontinuità col precedente governo del nazionalista Jarosław Kaczyński [gemello dell’attuale presidente, n.d.a.] – ha raggiunto un importantissimo accordo sui principi che tale dichiarazione dovrà contenere: la creazione di una Forza Comune di Reazione Immediata per le emergenze planetarie; una protezione civile europea per fronteggiare le calamità naturali; un comune sistema di difesa UE con proprio esercito e comuni armamenti.

Sottolineare l’altissimo valore di tale iniziativa è doveroso. Infatti, il superamento della dimensione nazionale anche per quanto riguarda l’esercito e la politica di difesa è una tappa obbligatoria per il proseguo dell’integrazione continentale, che superato lo scoglio del trattato di Lisbona sembra ora avere nuova linfa. Ed è altamente significativo che a compiere tale passo siano due Paesi spesso accusati di euroscetticismo e di scarsa collaborazione nelle strutture continentali.

In particolare, per Varsavia l’iniziativa politica in questione cade a poche settimane dalla definitiva rinuncia al progetto di difesa antimissilistica USA in Europa Centrale da parte dell’amministrazione Obama. Optando per la via europea in tandem con Parigi, la Polonia dimostra di voler perseguire con coerenza la propria vocazione europea e di contemplare nell’UE l’unica possibilità concreta ed attuabile di modernizzazione delle proprie strutture di difesa militari. Nel contempo, contribuisce concretamente al rafforzamento delle strutture continentali, accantonando ogni rivalità con uno dei Paesi tradizionalmente più ostili alla “Nuova Europa”, come dimostrato, ad esempio, in occasione dell’aggressione russa alla Georgia dell’agosto 2008 [Sarkozy, allora Presidente di turno UE, assunse una posizione chiaramente filorussa, ignorando le legittime preoccupazioni dell’Europa Centrale e dei Paesi Baltici dinnanzi alla rinata aggressività moscovita, ben nota in territori liberatisi dal comunismo solo venti anni or sono, n.d.a.].

Con tutta probabilità, il documento per la comune difesa europea sarà varato entro il secondo semestre del 2011, quando Varsavia assumerà la presidenza di turno UE. Esso avrà certamente carattere continentale, e prevedrà anche il rafforzamento della collaborazione con la NATO. Come illustrato dal ministro polacco per gli Affari Europei Mikołaj Dowgielewicz, “l’iniziativa franco-polacca non è affatto una minaccia per l’Alleanza Atlantica, ma riguarda il rafforzamento del fronte europeo, che naturalmente continuerà a lavorare attivamente in seno alla NATO”.

Come confermato da diverse fonti, a dare avvio alla stretta collaborazione con Parigi hanno concorso da un lato i colloqui dello scorso luglio tra il ministro degli esteri polacco Radosław Sikorski ed il suo omonimo francese Bernard Kouchner, e dall’altro la partecipazione di un contingente polacco alla missione militare europea in Ciad.

Presso il Ministero della Difesa polacco si parla espressamente di una “Nuova Saint-Malo” a undici anni dalla precedente dichiarazione franco-inglese, a cui purtroppo non è seguita alcuna iniziativa concreta. Nel dicembre 1998 presso la città della Normandia sopra citata, Jacques Chirac e Tony Blair siglarono un accordo per la costituzione di una difesa comune indipendente dalle strutture NATO, sancendo de facto il primo passo verso la creazione di un unico esercito europeo.

Oggi, la oramai certa vittoria in Gran Bretagna alle elezioni politiche del 2010 dei conservatori – contrari ad ogni progresso dell’integrazione europea – ha spinto la Francia a ricercare un nuovo, affidabile partner per la realizzazione dell’unione militare, trovandolo nella Polonia di Tusk e nella sua linea politica fortemente filoeuropea.

Si tratta della prima, vera iniziativa intrapresa comunemente da un Paese della Vecchia e della Nuova Europa dopo anni di sterili quanto controproducenti incomprensioni e divisioni. E’ questa l’unica via possibile da seguire affinché l’Europa possa finalmente esercitare il suo ruolo sullo scenario politico mondiale, agendo e parlando con una voce sola.
Con la speranza, sempre viva, che tale progresso abbatta ogni timore nei confronti di quelle autocrazie che ancor oggi si servono delle proprie risorse energetiche per minacciare la stabilità degli stati sovrani confinanti e per calpestare qualsiasi forma di libertà e di diritto della persona. Leggasi, ovviamente, la Russia di Putin.
Matteo Cazzulani

venerdì 30 ottobre 2009

GUERRA DEL GAS, MOSCA APRE IL FRONTE POLACCO

Nella giornata di lunedì 26 e martedì 27 ottobre sono iniziati i negoziati tra la russa Gazprom e la polacca PGNiG (Polskie Górnictwo Naftowe i Gazownictwo) per il rinnovo del contratto di fornitura del gas da Mosca a Varsavia.

La trattativa tra i monopoli dei due paesi è ancora in fieri, poiché malgrado un iniziale accordo tra le parti, Gazprom inspiegabilmente ha ritrattato alcune clausole concernenti le tariffe di transito del gas che Mosca dovrebbe versare a Varsavia.

Riunitisi nella capitale della Federazione Russa, gli esponenti di Gazprom e PGNiG, il ministro per l’energia russo Sergej Šmatka ed il suo omonimo polacco – anche vice premier – Waldemar Pawlak non hanno concluso un accordo che pareva oramai cosa fatta. “Sembrava tutto concordato, ma durante l’incontro conclusivo è ricomparsa la questione delle tariffe di transito, troppo onerose secondo Mosca. Dunque, abbiamo proposto un piano di ammortamento, che però Gazprom ha rifiutato categoricamente” ha illustrato il vice premier polacco. Tale piano, stando sempre alle dichiarazioni del vice premier, consisterebbe nell’incremento del numero delle rate, che così risulterebbero meno onerose per le casse russe.

Il colosso moscovita ha dichiarato di volere abbattere il costo totale, e non di ottenere uno sconto sul singolo versamento. Il tutto, malgrado le tariffe di transito a Varsavia siano già oggi le più basse versate da Gazprom ai Paesi UE. Inoltre, esse sono state stabilite in base alla legge polacca – territorio su cui sono imposte – e confermate dall’Autorità per la Regolazione Energetica. E su di esse non pende ancora alcuna mora nonostante il colosso moscovita da quattro anni si rifiuti di pagare la quota dovuta, infrangendo sistematicamente tale adempimento contrattuale.

Non solo le tariffe, poiché altri due sono i nodi responsabili dell’impasse nelle trattative. Dapprima, il gasdotto Jamal, per mezzo del quale la Russia rifornisce di gas la Polonia via terra. Dai primi anni ‘90 è in progetto un suo ampliamento per garantire un maggior afflusso di gas in territorio polacco ed una maggiore sicurezza energetica per Varsavia, ma negli ultimi tempi Mosca unilateralmente ha accantonato il progetto per concentrasi nella costruzione del NordStream, il gasdotto che collegherà Russia e Germania transitando sul fondo del mar Baltico: una vera e propria ritorsione politica contro quei Paesi tradizionalmente osteggiati dal Cremino come Repubbliche Baltiche, Polonia, Svezia e Finlandia.

In secundis, vi è la questione EuRoPol Gaz, il consorzio proprietario del Jamal. Attualmente, esso appartiene ex aequo al 48% a Gazprom e PGNiG e al 4% all’azienda Gas-Trading, che tuttavia non ha influenza alcuna nel consiglio di amministrazione. Sia la parte russa che polacca sono concordi nell’eliminare il terzo membro per controllare il consorzio al 50% ciascuno, ma Gazprom pretende un ruolo predominante all’interno della nuova EuRoPol Gaz, ad esempio nominando un numero maggiore di componenti del CdA.

Tuttavia, in questa prima tornata di trattative Gazprom è riuscita a mettere a segno un colpo importante a totale svantaggio della Polonia. Il contratto di fornitura di gas tra Gazprom e PGNiG è stato prorogato di 15 anni fino al 2037 con un incremento della quantità di oro blu che Varsavia sarà obbligata ad acquistare a 196 miliardi di metri cubi annui. L’accordo attuale prevede fino al 2015 l’acquisto di 8/9 miliardi di metri cubi ogni 12 mesi. In tal modo, Gazprom si assicura per i prossimi 30 anni il pagamento dalla Polonia di circa 60 miliardi di Dollari (stando ai prezzi dello scorso anno).

Seppure come già illustrato le trattative continueranno nei prossimi giorni, il dato politico della situazione è evidente. Mosca ha aperto ufficialmente l’ennesimo fronte della guerra del gas. Innalzando la durata contrattuale e la quantità di gas che Varsavia deve importare, il Cremlino ha dimostrato di potere interferire – quando non destabilizzare – nell’economia di un Paese sovrano appartenente all’Unione Europea. Pretendendo un ruolo di predominio per Gazprom all’interno della nuova EuRoPol Gaz, finirebbe per assumere il controllo dei gasdotti diretti in Polonia, aumentandone la dipendenza energetica. Privilegiando il progetto NordStream, punisce i propri avversari politici con la complicità di una Vecchia Europa troppo intimorita e dipendente dal gas russo.Qualora tale scenario si traducesse davvero in realtà, allora si verificherebbe la fine dell’Europa. E nessun trattato, né referendum costituzionale potrebbero risollevare più le sorti di un continente che per timore del ricatto energetico di un Paese autoritario con esso confinante ha rinnegato quello che dovrebbe essere il suo fondamento filosofico-culturale e la sua missione nel mondo: il rispetto dei diritti umani e delle libertà dell’individuo contro ogni autocrazia e dittatura. Anche contro il gas di Putin.

giovedì 22 ottobre 2009

SCUDO SPAZIALE IN POLONIA, SI RICOMINCIA DA CAPO. CON BIDEN.

Nella giornata di mercoledì 21 ottobre, il vicepresidente USA Joe Biden ha incontrato a Varsavia il premier Donald Tusk e il presidente Lech Kaczyński per discutere, tra l’altro, del nuovo piano di difesa missilistico dell’amministrazione Obama.

Una data politicamente molto attesa lungo il Nowy Świat, a cui i media polacchi hanno dato ampia evidenza. Contrariamente, purtroppo, al resto dei giornali occidentali che, New York Times a parte, non hanno ritenuto tale notizia degna nemmeno di essere citata.

Atterrato in mattinata, prima del round di incontri ufficiali, Biden ha voluto rendere omaggio agli eroi del ghetto di Varsavia con la posa di un mazzo di fiori ai piedi del monumento ad essi dedicato. La presenza del Vicepresidente USA sulle rive della Vistola non è affatto una formalità. Difatti, è Joe Biden l’uomo che Obama incarica per mantenere le relazioni con i tradizionalmente fedeli alleati dell’Europa Centro-Orientale, sempre più allarmati ed irritati dalle sue spericolate manovre di avvicinamento alla Russia di Putin. Così è stato lo scorso luglio per Georgia ed Ucraina dopo il celeberrimo reset proposto da Hillary Clinton a Sergej Lavrov; così si è verificato anche pochi giorni or sono, successivamente alla rinuncia di Washington al progetto di difesa missilistica ubicato in Repubblica Ceca e Polonia, infelicemente comunicata da Obama il giorno del sessantesimo anniversario dell’invasione sovietica ai danni di questo ultimo Paese [il 17 settembre 1939, n.d.a.].

Dunque, Biden non è Obama. Saranno le sue origini irlandesi [Paese che purtroppo ha molto in comune con la Polonia in quanto a sofferenze patite e passato ignorato dalla stragrande maggioranza delle storiografie europee, n.d.a.], ma il vicepresidente USA apprezza e comprende a fondo la Polonia ed i Paesi della Nuova Europa. Lo si capisce dal tono con cui partecipa alle due conferenze stampa, durante le quali non esita a chiamare Tusk “Mr. President” e a definire Kaczyński “un vecchio amico con cui è normale intrattenersi più del previsto”.

Tuttavia, dai due incontri pochissimi sono i dettagli tecnici emersi. Certo è solo che il nuovo sistema di difesa missilistico USA in Europa Centrale punta alla difesa da missili a corto-medio raggio e che sarà costituito da intercettori SM-3 installati in tre fasi temporali differenti (l’ultima tra il 2005 e il 2008) su vettori mobili in più di un Paese dell’Europa centro-orientale, con tutta probabilità Polonia, Repubblica Ceca e Romania.

“In virtù dell’accordo Sikorski-Rice firmato con la precedente amministrazione [Bush, n.d.a.] nell’agosto del 2008, alla Polonia spetterà un trattamento prioritario” ha affermato Biden nella conferenza stampa con Tusk. Il quale dapprima aveva evidenziato che “Varsavia considera il nuovo progetto di difesa missilistica interessante, utile e siamo pronti a prendervi parte a queste condizioni”.
Il vice Obama ha proseguito affermando che gli USA sono soddisfatti di questo “nuovo passo” nelle relazioni tra i Paesi NATO, volto a “tutelare la sicurezza di Washington e di tutti gli alleati dell’alleanza atlantica”. Ha aggiunto poi che gli Stati Uniti intendono “mantenere gli impegni con essi già presi”, tra i quali il dispiegamento di una batteria di intercettori patriot in Polonia [come previsto dal già citato accordo dell’agosto 2008, n.d.a.].

Terzo atto della giornata, l’incontro con Lech Kaczyński. Biden ha garantito che la Polonia è vista da Washington come il “Paese-modello non solo per gli amici della NATO, ma anche per quei Paesi che ancora aspirano all’ingresso nell’alleanza atlantica”, un’opinione “che batte nel cuore di tutti gli americani, repubblicani e democratici”. Nel corso della conferenza stampa – iniziata con due ore di ritardo a causa del prolungarsi dei colloqui col presidente della Repubblica Polacca – ha aggiunto che “gli USA continueranno il loro impegno per la democrazia e la stabilità in Ucraina, Bielorussia e Georgia”. Infine, ha lodato i soldati polacchi per il loro coraggio ed impegno accanto agli americani dimostrato in Afghanistan ed Irak. Anche questa seconda conferenza stampa si è svolta in un clima di amicizia, al punto che il vice Obama si è concesso il beneficio della battuta, affermando che sua figlia “vive nella città polacca più grande al mondo” [Chicago, una delle mete principali della diaspora polacca sin dagli esordi, n.d.a.]. Dal canto suo, Kaczyński ha evidenziato di avere reagito alle parole di Biden ”con ottimismo”.

Tuttavia, restano molti nodi da sciogliere. Tra essi, l’accordo SOFA, che accanto all’installazione dei patriot prevede lo stazionamento in territorio polacco di soldati USA per addestrare l’esercito locale all’utilizzo di tali armamenti difensivi. Su di esso non una parola, sebbene fosse per Kaczyński una priorità.
Almeno il dato politico è inequivocabile: Washington intende tranquillizzare gli amici dell’Europa Centro-Orientale – la Polonia in particolare – e garantire loro che il proprio supporto è rimasto lo stesso nonostante il cambio di amministrazione e le prime, infelici mosse politiche di Barack Obama.

Resta sempre e comunque la perplessità legata al fatto che per compiere tale gesto il presidente USA ancora una volta si sia servito del suo vice, e non abbia provato a ricucire i rapporti in prima persona. Un gesto che sicuramente i nuovi europei – e non solo loro – avrebbero maggiormente apprezzato. E che avrebbe rafforzato nell’area e nel Mondo l’immagine e l’autorevolezza del neo insignito Premio Nobel per la Pace.
Matteo Cazzulani

martedì 20 ottobre 2009

ANNAVIVA SU BELSAT.TV

Servizio televisivo realizzato sull'Associazione AnnaViva (con un'intervista al sottoscritto in polacco doppiata in bielorusso) dalla televisione "Belsat", organo di informazione libero che si batte per la democrazia in Bielorussia.

http://www.belsat.eu/generator.php?lista_wezlow=1,10,14,17,4421,4881&show=tak

giovedì 15 ottobre 2009

ANCHE LA POLONIA FIRMA LISBONA

Varsavia è il penultimo paese europeo a ratificare il trattato di Lisbona dopo innumerevoli ostacoli. Da ultimo, la penna stilografica del Presidente.

KRAKÓW – Sabato 10ottobre 2009 passera alla storia come il giorno in cui le ultime resistenze polacche all’UE sono state superate. Difatti, il presidente Lech Kaczyński ha firmato il trattato di Lisbona dopo la vittoria del “sì” al referendum irlandese, mantenendo la promessa fatta al Presidente dell’Europarlamento Jerzy Buzek.

La cerimonia, solenne e ufficiale, è avvenuta in diretta tv nella tarda mattinata. Oltre a Kaczyński, tra i partecipanti hanno figurato il premier Donald Tusk, il già citato Jerzy Buzek, il capo della Commissione Europea Barroso ed il premier svedese Fredrik Reinfeldt, presidente di turno dell’UE.

“La questione riguarda il futuro dei cittadini polacchi. E la Polonia è uno stato sovrano, per cui devono essere i polacchi e non gli irlandesi a decidere”. Così ha esordito il presidente padrone di casa nel suo discorso antecedente la sigla del trattato. Quasi a voler chiarire che la decisione di ratificare Lisbona non è legata al si del referendum irlandese, ma dipende da una sua precisa volontà.
Difatti, ha continuato spiegando che per entrare in vita il trattato necessita del consenso di tutti i Paesi UE, dunque senza l’adesione di Dublino la sua firma sarebbe risultata inutile. Per questa ragione, Kaczyński avrebbe aspettato l’esito del referendum irlandese per porre la sua firma “in difesa del principio dell’unanimità”.

Quello di sabato pareva totalmente un’altra persona rispetto al Kaczyński di solo un anno fa, quando a più riprese dichiarava come il trattato di Lisbona [e con esso il futuro dell’UE, n.d.a.] fosse “definitivamente morto”. Ma fatto sta che la firma è stata posta, e finalmente la Polonia ha ratificato il trattato di Lisbona, concordemente – è bene ricordarlo – con la maggioranza dell’opinione pubblica e delle forze politiche presenti in parlamento (la maggioranza del liberale Tusk è caratterizzata da una vocazione fortemente europeista).

Sempre nel corso del suo intervento ufficiale, Kaczyński ha evidenziato come il trattato in questione sia “vantaggioso per la Polonia”, poiché al momento della sua negoziazione nel 2007, 13 dei 14 postulati presentati da Varsavia sono stati accolti, tra cui il prolungamento fino al 2017 del conteggio dei voti secondo i parametri di Nizza che consentono alla Polonia una cospicua rappresentanza in seno all’Europarlamento. Per questa ragione, ha tessuto le lodi dell’ex ministro degli esteri Anna Fotyga – appartenente al suo stesso partito di estrema destra “Legge e Giustizia”, al governo dal 2005 al 2007 – per il lavoro svolto in quella occasione.
Parole di elogio sono state rivolte anche a Tadeusz Mazowiecki, capo del primo governo della Polonia post-comunista, grazie al cui ruolo “la caduta del Muro di Berlino ha potuto tradursi in realtà”.

A ragione, il presidente ha spiegato come a suo modo di vedere”questo grande esperimento umano debba mantenere il suo principio di apertura verso nuovi membri, Georgia ed Ucraina in primis”.

In ultima istanza, l’affermazione secondo cui l’Unione Europea deve restare “un’unione di Stati nazionali che mantengono la propria sovranità”. Un auspicio poco europeista ma digeribile vista la posta in palio. Il continente intero ha atteso questa firma per 557 lunghissimi giorni. E, da vero copione picaresco, in ultimo è stata fiaccata anche l’ultima resistenza: la penna di Kaczyński, inceppatasi e prontamente sostituita.
A corredo del solenne atto, gli interventi delle altre personalità presenti. Il premier polacco Donald Tusk non ha risparmiato alcune frecciate al presidente, affermando di essere “sorpreso per il ritardo di circa un anno con cui Kaczyński si è convinto a firmare il trattato”. “Una ratifica – ha continuato il capo del governo polacco – che non è frutto di becero calcolo politica, ma dimostra come la Polonia ha smesso di essere un membro novello dell’UE ed è consapevole delle proprie responsabilità all’interno dell’Unione”.

Il presidente del Parlamento Europeo Jerzy Buzek – ex-premier polacco dal 1997 al 2001 – ha evidenziato l’importanza della firma in quanto “consente ai governanti del continente di possedere maggiori strumenti per migliorare la qualità della vita dei cittadini europei”. Per questo, è convinto che “anche i più strenui oppositori [come Lech Kaczynski, n.d.a.] presto o tardi si renderanno conto dell’estrema importanza di un’Europa davvero forte e politicamente integrata al suo interno”.

Il premier svedese Reinfeldt ha illustrato invece come ora manchi solo la firma di Praga per l’entrata in vigore del trattato. Il presidente ceco Václav Klaus ha affermato che il suo no è legato all’assenza di rassicurazioni che prevengano eventuali pretese tedesche sui Sudeti, territori appartenenti alla Repubblica Ceca. Una preoccupazione che sembra essere solo sua, dal momento in cui la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica del suo Paese è strenuamente favorevole alla firma del Trattato.

Kaczyński e Klaus rappresentano due facce del medesimo fenomeno: un nazionalismo becero che pur essendo minoritario nei propri paesi detiene le leve del potere. Felicemente, in Polonia si è riusciti a superare tale fastidiosa situazione che gettava discredito su un popolo che in realtà vive l’Europa da molti più secoli di quanto comunemente si pensi nel resto dell’occidente e che con convinzione considera l’UE come la propria casa politica.

Tale sentire è presente anche in Repubblica Ceca. Sta sopratutto a noi europei degli Stati che già hanno ratificato Lisbona aiutare i nostri fratelli cechi nel convincere il presidente Klaus che certi rigurgiti xenofobi non appartengono né al dna dell’UE né rendono onore alla gloriosa tradizione della sua patria, che al vecchio continente ha fornito nella storia indimenticabili pagine di letteratura, grandi uomini e persino qualche Sacro Romano Imperatore. Praga appartiene all’Europa. E l’Europa non può fare a meno di lei.

Matteo Cazzulani

domenica 27 settembre 2009

Saluto all'Italia

Care Amiche Lettrici, Cari Amici Lettori,

Con questa breve comunicazione intendo salutare ufficialmente tutti Voi che con costanza ed interesse seguite il mio blog.

Non si tratta di un saluto di congedo per cessata attivita. Anzi. Semplicemente, i prossimi articoli da me composti saranno redatti non piu dall'Italia, bensi dalla Polonia. Un Paese che amo, nel quale ho deciso di trascorrere un soggiorno di qualche mese. Sara per me non soltanto l'occasione per migliorare la mia capacita linguistica nella lingua di Milosz e Walesa, ma anche un'opportunita per seguire piu da vicino alcune delle questioni su cui scrivo. In primis, la crisi del gas - che si preannuncia particolarmente aspra anche per questo inverno - e le elezioni ucraine, programmate per la meta gennaio.

Relazionarvi direttamente dai luoghi interessati credo sara fattore di Vostro apprezzamento e gradimento, nonche una possibilita per fruire di notizie elaborate fisicamente - e non solo virtualmente - sul posto.

RingraziandoVi per la costanza e la pazienza con cui mi seguite, Vi saluto caramente.

A risentirci dalla Nuova Europa.


Matteo Cazzulani
Presidente Associazione ANNAVIVA
+393493620416
www.annaviva.com

Le mail ti raggiungono ovunque con BlackBerry® from Vodafone!

lunedì 21 settembre 2009

MOSCA SFIDA LA NATO ANCHE IN BIELORUSSIA

Circa 15 mila soldati – di cui 3 milioni appartenenti all’esercito della Federazione Russa – stanno compiendo imponenti operazioni di addestramento militare in funzione anti-occidentale. Nonostante la recente decisione USA di rinunciare allo scudo spaziale in Repubblica Ceca e Polonia e le ultime aperture NATO sulla possibile creazione di un sistema di difesa integrato Washington-Bruxelles-Mosca.

Si tratta dell’operazione Zapad 2009 (Occidente 2009), denominazione militare che rende bene l’idea di quale sia il suo vero obiettivo principale: la prevenzione di attacchi da ovest. Difatti, lo scopo ufficiale è quello di garantire la sicurezza dell’alleanza tra Bielorussia e Russia, stipulata oramai da diversi anni e rinsaldata da periodiche sessioni di addestramento comune, sempre e rigorosamente svoltesi in territorio bielorusso. Le manovre attualmente in corso dureranno fino al 29 settembre, giorno in cui le truppe saranno passate in rassegna dai presidenti Dmitrij Medvedev e Alaksandar Lukašenka.

A detta degli esperti, l’operazione in corso sarebbe la più imponente mai accaduta nella storia. Oltre all’ingente quantità di soldati, nell’addestramento sono coinvolti anche 63 aerei militari, 43 elicotteri, 470 mezzi blindati, 228 carri armati e artiglieria varia.

Fatto curioso è che negli ultimi tempi la partecipazione di militari della Federazione Russa è aumentata sempre più, scatenando vivacissime proteste delle opposizioni (l’ultima lo scorso martedì 8 settembre) e, come da copione a Minsk, violente repressioni da parte della milicja con il conseguente arresto di dimostranti particolarmente invisi al regime. “Ci inquieta la presenza di una così alta quantità di militari russi ed il rafforzamento della collaborazione militare con la Russia. Tutto ciò è dannoso per la Bielorussia” ha affermato il nuovo vicesegretario del Fronte Popolare Bielorusso (BNF) Igar Lalkou al quotidiano polacco Gazeta Wyborcza.

Significativo è il parere di Alaksandar Alesin, esperto di tattiche militari bielorusse. “Non c’è nulla da nascondere, ad essere esercitata è la difesa dell’alleanza russo-bielorussa in vista di possibili conflitti con la NATO. Eppure non ha alcun senso compiere tali esercitazioni impiegando artiglieria e aviazione militare”. Infatti, Alesin sottolinea come Mosca abbia deciso di intensificare le manovre militari in un periodo di grave crisi economica mondiale per dimostrare al pianeta di possedere un esercito ancora potente e pericoloso. E Minsk, accettando l’aumento del contingente russo nelle operazioni sul suo suolo, a sua volta dimostrerebbe al vicino sincera lealtà nonostante alcuni, timidi cambiamenti della propria politica estera in apertura all’Occidente.

Se sommate alla presenza dei missili iskander nell’enclave di Kaliningrad, tali esercitazioni dimostrano la reale volontà da parte del Cremlino di collaborare con un Occidente visto come nemico per consolidare il proprio consenso interno. Il tutto, nonostante il nuovo corso della politica estera di Barack Obama, che in nome di un reset con Mosca tanto ostinato quanto pericoloso ha compromesso la situazione di alcuni dei suoi alleati più stretti.

Sebbene a riguardo fosse stato firmato un accordo poco più di una anno fa, giovedì 17 settembre 2009 – a settanta anni esatti dall’invasione sovietica della Polonia – l’ex senatore dell’Illinois ha comunicato ufficialmente la rinuncia allo scudo spaziale in Europa Centrale, la cui realizzazione prevedeva l’installazione di una postazione radar in Repubblica Ceca e di una batteria di intercettori patriot – tecnicamente utilizzabili solo per scopi difensivi – in Polonia entro il 2012. Sebbene ufficialmente approntato contro possibili minacce iraniane, tale progetto è stato accettato dai due Paesi UE per migliorare le proprie strutture militari in difesa dalla rinata autocrazia russa, soprattutto in seguito alla guerra russo-georgiana, con la quale il Cremlino de facto ha infranto la sovranità territoriale di uno Stato sovrano ed indipendente. Ribadendo la connotazione anti-iraniana del progetto, Obama ha invalidato gli accordi con Praga e Varsavia ed ha promosso un nuovo sistema di difesa con postazioni missilistiche e radar dislocate su unità mobili terrestri e marittime entro il 2015.

Inoltre, nella giornata di venerdì 18 settembre il segretario generale della NATO Fogh Rasmussen ha ipotizzato la creazione di una difesa comune tra USA, Europa e Russia per prevenire le minacce provenienti da Iran e Corea del Nord. Un passo significativo per coinvolgere maggiormente Mosca nelle strutture militari occidentali, descritto dai media russi come una vittoria del Cremlino su un Occidente sempre più debole.

Tuttavia, le già citate esercitazioni russo-bielorusse, condotte espressamente in funzione anti-occidentale, e la presenza degli iskander tra la Polonia e la Lituania puntati verso ovest rendono più complicato concepire come Mosca possa accettare le ultime aperture atlantiche e partecipare ad un progetto di difesa comune con Washington e Bruxelles.
E getta seri dubbi sulla reale incisività della politica estera di Obama, che con il suo soft-profile nel concreto ha ottenuto finora il solo risultato di deludere gli alleati della Nuova Europa – storicamente al fianco di Washington anche nelle situazioni più critiche come la guerra in Irak. Ovviamente, senza tuttavia riuscire ad arrestare né le repressioni iraniane alle sempre più frequenti manifestazioni democratiche, né le rinate velleità imperiali di una Russia che mira all’egemonia sui paesi dell’ex-blocco sovietico, che tiene in scacco l’Europa per mezzo del gas e che sullo scenario politico interno calpesta i diritti umani, le opposizioni democratiche e la stampa libera.
Matteo Cazzulani

giovedì 17 settembre 2009

ORA E’ UFFICIALE. OBAMA RINUNCIA ALLO SCUDO IN EUROPA CENTRALE

Per mezzo di una conferenza stampa convocata ad hoc alle 16 (ora europea) del 17 settembre 2009, il presidente USA Barack Obama ha comunicato la definitiva rinuncia di Washington al sistema di difesa antimissilistico in Europa Centrale.

La motivazione della rinuncia è legata al fatto che il progetto dello scudo spaziale così come finora concepito non sarebbe abbastanza “elastico nei confronti di potenziali minacce da parte dell’Iran”. In realtà, pare proprio che la nuova amministrazione USA voglia evitare ogni possibile attrito con Mosca, dove la democratura del Cremlino ha cementato un ampio consenso interno rinvigorendo l’idea di una “Grande Russia” che deve rimpossessarsi del suo “estero vicino”, ovvero di tutti i Paesi una volta parte dell’impero sovietico, e, in secondo luogo, ristabilire la propria egemonia sull’ex areale dell’ex Patto di Varsavia. In Paesi – è bene ricordarlo – oggi finalmente liberi membri dell’Unione Europea.

Secondo la nuova strategia americana, il nuovo scudo antimissilistico “sarà più forte, intelligente e veloce”. Obama ha aggiunto di aver parlato con i primi ministri di Repubblica Ceca e Polonia, a cui avrebbe “confermato i forti legami con i loro Paesi. Ho detto loro che il nuovo programma migliorerà non soltanto la sicurezza USA, ma anche dei nostri alleati della NATO”.

Nel passaggio successivo, l’inquilino della Casa Bianca ha illustrato la maniera con la quale tale decisione sarebbe maturata.“Dopo essermi consultato con lo stato maggiore dell’esercito americano ho deciso di varare un sistema di difesa missilistica differente rispetto a quello programmato dall’amministrazione Bush”. Obama ha chiarito poi che la differenza consisterà nell’adozione di missili a corto raggio, e non più a lungo come i patriot promessi a Varsavia. Per questa ragione – nonostante sia stato firmato un accordo tra le parti già nell’agosto 2008 – in Polonia non sarà dispiegata alcuna batteria, ed in Repubblica Ceca l’installazione di una postazione radar non avrà più alcun senso.

“Continueremo la collaborazione con Polonia e Repubblica Ceca nella creazione del nuovo sistema al fine di rafforzare le nostre capacità difensive comuni. Ma collaboreremo anche con gli altri Paesi NATO e con la Russia” ha aggiunto l’ex senatore dell’Illinois.

In chiusura, il segretario alla Difesa Robert Gates ha parlato della possibilità di dispiegare nuovi sensori ed intercettori in zone dell’Europa meridionale e settentrionale non prima del 2015.

Nella notte, Obama ha informato della decisione il primo ministro ceco Jan Fischer. Una delegazione della Casa Bianca – capitanata dal sottosegretario alla difesa Michele Flournoy – ha incontrato nella mattinata il Ministero degli Esteri polacco Radosław Sikorski, a cui è seguita una conversazione telefonica tra il Primo Ministro Donald Tusk e lo stesso presidente USA.

Lo stesso Tusk ha dichiarato che la decisione di Washington è stata “autonoma”, aggiungendo che la nuova strategia non muta il rapporto tra Varsavia e Washington, improntato sulla “reciproca amicizia e collaborazione non soltanto in campo militare”. Al contrario, potrebbe “consentire un ulteriore miglioramento delle relazioni bilaterali”.

Tuttavia, resta il fatto che ad oggi il nuovo corso della politica estera di Obama lascia Praga e Varsavia ancora più sole di quanto prima già non lo fossero. Senza più l’appoggio USA e con un’Europa noncurante delle ragioni dei suoi membri centro-orientali, reagire a possibili minacce provenienti da Mosca – che mantiene i suoi missili Iskander nell’enclave di Kaliningrad e che tiene in scacco il Vecchio Continente per mezzo del gas – per Repubblica Ceca e Polonia sarà maggiormente complicato.
Matteo Cazzulani

mercoledì 16 settembre 2009

PERCHE ADERISCO ALLA MANIFESTAZIONE PER LA LIBERTA DI STAMPA DI SABATO 19 NOVEMBRE A ROMA

Appresa la notizia dell’organizzazione di un’imponente manifestazione per la libertà di stampa, assieme all’Associazione AnnaViva, che ho l’onore di presiedere, non ho esitato ad aderire anche a titolo personale. Del resto, una simile posizione già è stata assunta l’estate scorsa, quando si è deciso di supportare e pubblicizzare l’appello per la libertà di stampa nel mondo firmato e promosso da Nando Dalla Chiesa (sempre sottoscrivibile sul mio blog http://matteocazzulani.blogspot.com).

Nell’ambito di AnnaViva – che per mia grande passione ricopre l’intero mio tempo libero (e anche qualcosa di più) – mi batto nel quotidiano non solo per lo sviluppo della democrazia e per la tutela dei diritti umani nel mondo ex-sovietico, ma anche per la difesa della libertà di stampa: un diritto che a Mosca ed in altre realtà dell’ex Unione Sovietica è ben lontano dall’essere riconosciuto. Lo dimostrano le continue violenze e vessazioni a cui sono soggetti i giornalisti indipendenti non allineati col pensiero del regime; ne è esempio forse più noto l’assassinio di Anna Politkovskaja, donna dal grande coraggio – a cui AnnaViva deve il proprio nome – uccisa nella Russia di Putin, “colpevole” di documentare con straordinaria determinazione le ripetute violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito federale russo in Cecenia e nel resto del Caucaso.

Pur non rientrando nell’area di mio interesse, anche il Paese che mi ha dato i natali un poco mi sta a cuore. E, coerentemente con la mia impronta politica liberaldemocratica, non vorrei mai che un domani gli italiani vivessero in uno Stato in cui il pensiero del singolo, quale che sia il suo orientamento politico-culturale, fosse censurato qualora non coincidesse con quello delle autorità.
Sia chiaro, la situazione italiana è ben più rosea rispetto a quella che posso quotidianamente constatare in Russia e nell’area ex-URSS. E sono fiero di condurre un’associazione che sulla scena politica nazionale è fermamente – e fieramente – neutrale, non riconoscendosi in nessun partito né movimento alcuno.
Tuttavia, ritengo la libertà di stampa un preziosissimo valore che non ha confini e che deve essere tutelato ovunque nel mondo, a Mosca come a Roma: la differenza che intercorre tra le querele, le carte bollate ed i palinsesti televisivi stravolti all’ultimo momento nostrani e le violenze in salsa russa sono puramente di forma, ma non di sostanza.

Per questo, sabato 19 settembre 2009 anche io prenderò parte con i colleghi di AnnaViva alla manifestazione per la libertà di stampa, al fianco degli amici di Articolo 21 e degli altri organizzatori. Per manifestare non contro qualcuno, ma in favore di un diritto basilare e fondamentale per ogni Paese libero e democratico.
Matteo Cazzulani

lunedì 14 settembre 2009

L’OPPOSIZIONE BIELORUSSIA SCEGLIE UN NUOVO LEADER

Il giovane Alaksej Janukevič è stato eletto alla guida del Fronte Popolare Bielorusso (BNF). Una scelta che muta l’orientamento politico delle opposizioni e rafforza la candidatura di Alaksandar Milinkević alle prossime elezioni presidenziali.

Malgrado le continue repressioni a cui è sottoposta – non ultima quella attuata dalla milicija lo scorso 8 settembre in piazza Kastryčniskaja ai danni dei manifestanti filo europei contrari alla presenza dell’esercito russo a Minsk – l’opposizione bielorussa rilancia la sfida al dittatore comunista. Lo dimostra il Fronte Popolare Bielorusso (Belaruski Narodny Front), principale partito della coalizione democratica che in occasione del suo dodicesimo congresso (svoltosi lo scorso sabato 5 settembre) ha eletto suo nuovo leader il giovane 33enne Alaksej Janukevič, preferito all’esponente della “vecchia guardia” del partito Lavon Barščeuski.

Il Fronte Popolare Bielorusso possiede un programma articolato basato su principi liberali e filo occidentali: adesione a NATO e UE; creazione di un’economia di mercato (Minsk è l’unico paese europeo ad essere retto da un’economia ancora pianificata dallo Stato); sviluppo di una vera e propria democrazia, ove libertà di stampa, di opinione e di associazione siano finalmente garantite. Fondato nel 1990, il BNF ha supportato la candidatura di Alaksandar Milinkević alle elezioni del 2006, falsate dal regime di Lukašenka. Nonostante molti tra i suoi esponenti di spicco siano ancora detenuti nelle carceri del Paese per ragioni politiche, la recente, lieve attenuazione della morsa del regime – ottenuta solo grazie alle pressioni occidentali – ha consentito al Fronte Popolare di presentare proprie liste alle ultime elezioni locali, riuscendo ad ottenere qualche seggio in alcuni consigli cittadini. Nel dicembre 2007, alla sua guida è stato eletto Barščeuski, cui mandato è terminato lo scorso agosto.

La questione principale sulla quale i due candidati si sono confrontati riguarda le alleanze ed il ruolo che il BNF deve esercitare nell’ambito dell’Unione delle Forze Democratiche, la vastissima coalizione che comprende tutte le forze politiche avverse a Lukašenka, dal movimento “Per la Libertà” (Za svabodu) di Alaksandar Milinkević a quelle di ispirazione comunista e filorusse come il Partito dei Comunisti di Bielorussia (PKB, da non confondere con il Partito Comunista di Bielorussia del dittatore) ed il Partito Civico Unito (Ab’jadnaja Gramadzanskaja Partyja). Barščeuski sosteneva una maggiore presenza del BNF all’interno della coalizione. Invece, il neoeletto leader ha presentato una mozione improntata per intero sul rafforzamento dell’indipendenza del partito e sulla ristrutturazione dell’alleanza, che “deve diventare una coalizione patriottica composta unicamente da forze popolari e democratiche, senza la presenza di raggruppamenti filo russi e comunisti”, come da lui stesso dichiarato al termine delle votazioni. Dopo un dibattito lungo e partecipato, Janukevič ha avuto la meglio con 174 voti favorevoli su 318.

Tuttavia, diversi esperti di politica bielorussa non esitano ad indicare Alaksander Milinkević come il vero vincitore del congresso. Non solo a causa della medesima visione politica scettica nei confronti degli alleati comunisti e filorussi, ma anche perché Janukevič sarebbe ancora troppo giovane per la candidatura alle presidenziali del 2011. Come dichiarato dal politologo Valery Karbalevič al quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, “il BNF con tutta probabilità sosterrà [nuovamente, n.d.a.] Milinkević, indicandolo come il candidato più forte delle opposizioni”. De facto, la scelta di Janukevič rafforzerebbe le divisioni interne all’opposizione e comprometterebbe la possibilità di scegliere un unico candidato alla presidenza condiviso da tutti gli oppositori al dittatore Lukašenka.

A prescindere dalle opinioni politiche di ciascuno, la dinamicità interna alle forze democratiche e liberali in Bielorussia non può che essere analizzata positivamente, in quanto certifica un alto stato di salute e forza delle opposizioni, per nulla fiaccate dalle ripetute campagne di diffamazione e repressione perpetrate dal regime comunista. Nel contempo, la frequente scelta di nuovi leader da parte di questi movimenti testimonia la loro impossibilità di intraprendere progetti politici a lungo termine a causa dell’ancora opprimente presenza di una polizia politica che arresta sistematicamente gli oppositori più carismatici.
Pertanto, rappresenta un serio spunto di riflessione anche e sopratutto per noi occidentali, affinché d’ora in poi ci si responsabilizzi e si inizi a supportare con maggiore convinzione e determinazione la lotta nonviolenta per la democrazia e per il rispetto delle libertà civili in un Paese che per ragioni storiche e culturali appartiene più all’Europa che a Mosca.
Matteo Cazzulani

giovedì 10 settembre 2009

MINSK: ENNESIMA MANIFESTAZIONE REPRESSA DAL REGIME

Pesanti sono le notizie che rimbalzano da Minsk. Come riportato da radio free europe e dal sito di informazione Viasna, decine di manifestanti hanno protestato nella centralissima piazza kastrycniskaja contro la presenza in Bielorussia dell'esercito di Mosca per effettuare esercitazioni congiunte con quello di Minsk nell'ambito del progetto militare zapad 2009.

Nella giornata di martedì 8 settembre, festa della gloria militare bielorussa, i dimostranti - tutti appartenenti ai partiti di opposizione al regime di Lukashenka - si sono radunati fin dal primo mattino per esprimere la loro contrarietà alla presenza di militari stranieri - 6000. Candando lo slogan "russi a casa" e sventolando le bandiere bianco-rosse della Bielorussia libera, hanno presto subito le ripetute cariche della polizia di regime. Di inaudita violenza secondo svariati testimoni, rivolta persino contro donne ed anziani.

Trenta sono gli arrestati, quasi tutti appartenenti al movimento politico "Bielorussia Europea". Tra le vittime delle percosse anche diversi giornalisti, tra cui un reporter polacco di Tvp.

Continua la battaglia dei democratici bielorussi per la libertà e per l'emancipazione del loro paese dalla Russia di Putin. Sognano l'Europa, come dimostra il puntuale richiamo al vecchio continente durante le loro manifestazioni, sia con slogan che con bandiere. Eppure Bruxelles sembra guardare altrove, impaurito da possibili ricatti sul prezzo del gas dalla Russia di Putin, che considera Minsk uno dei tanti feudi da riconquistare.

Sentirsi europei oggi significa anche supportare la sacrosanta battaglia per la democrazia in Bielorussia. Ed io, seppur molto lontano, come i giovani manifestanti porto un braccialetto bianco-rosso (dono di uno di loro) con la scritta del loro motto: Za svabodu (per la libertà)!


Matteo Cazzulani

domenica 6 settembre 2009

MOSCA 2009, CRONACA (E PICCOLO VADEMECUM) DI UN TURISMO RESPONSABILE

E’ un fine settimana di tarda estate. Per molti, il week-end della partenza dalle vacanze. Per altri (perlopiù meneghini) la data del derby della Madonnina. Ma per l’associazione AnnaViva si tratta di una ricorrenza fondamentale: il 30 agosto è il compleanno di Anna Politkovskaja, la coraggiosa giornalista attorno alla cui memoria l’associazione è nata per difendere la libertà di stampa, diffondere la democrazia e tutelare i diritti umani nel mondo ex-sovietico. E’ il secondo dalla sua morte, da quando cinque colpi di pistola l’hanno zittita per sempre il 7 ottobre 2006, lo stesso giorno del compleanno dell’allora presidente (oggi primo ministro) russo Vladimir Putin.

Per questa ragione, una delegazione dell’associazione – in collaborazione con la testata Critica Sociale – è volata a Mosca per rendere omaggio a questa donna straordinaria nel giorno in cui avrebbe compiuto 51 anni. Colpisce il sorriso con cui è ritratta nella foto posta sulla sua tomba nel periferico cimitero di Troekurovo, dove è sepolta accanto a generali e militari che hanno combattuto per la “grandezza” della Russia. Ma colpisce anche constatare come prima dell’arrivo dei parenti e di alcuni colleghi di Novaja Gazeta (il giornale indipendente per cui scriveva) solo due sono le persone russe dinnanzi al suo monumento funebre: madre e figlia, semplici lettrici della Novaja, venute appositamente dalla provincia. Rimangono piacevolmente meravigliate dall’esistenza di una associazione che dall’Italia – Paese di quella Vecchia Europa tanto amica di Mosca e tanto dipendente dal suo gas da tacere sulla mancata libertà di stampa in Russia – si batte per tenere vivo il ricordo di Anna, “la più nota giornalista libera assassinata accanto a Natalia Estemirova e ad Anastasia Baburova” come da loro definita.

Scambiamo due parole anche con Dmitrij Muratov, il direttore della Novaja, rientrato appositamente dalle ferie da due ore. Con voce sommessa esordisce affermando che “in Cecenia la libertà di informazione è morta”, aggiungendo che la dolorosa decisione di ritirare i propri inviati da Groznyj è stata necessaria per evitare ulteriori vittime. Il suo tono di voce non muta quando analizza l’atteggiamento dell’Europa nei confronti di questa Russia autocratica, definito come “buono grazie al ruolo di Svezia, Polonia e Germania, eccezion fatta per Schroeder [che una volta terminato il suo mandato di cancelliere non ha esitato ad accettare la guida del consorzio Nord Stream, incaricato della costruzione dell’omonimo gasdotto che dal 2012 rifornirà di gas direttamente Berlino, aggirando membri UE invisi a Mosca come Svezia, Polonia e Stati Baltici, n.d.a.]”. Nemmeno quando, lucidamente, definisce il nuovo processo ai sospettati dell’omicidio Politkovskaja una “commedia dell’arte”, trasmettendoci lo sconforto che si prova dinnanzi ad uno Stato autocratico che inscena processi-farsa per tenere nascosta la verità.

Il ricordo di Anna continua nel pomeriggio con la visita della sua casa in via Lesnaja, 8. Una targa nera accanto alla porta d’ingresso di colore rosso vivo ricorda ai moscoviti che qui è stata uccisa. Accanto ad essa, una rosa, forse lasciata da qualche “passante responsabile” in fretta e furia, per non passare guai.

Il “turismo responsabile” di AnnaViva prevede per il giorno successivo una visita ufficiale a Memorial, l’associazione più attiva nella difesa dei diritti umani nella Russia di Putin con la quale collaborava la già citata Natalia Estemirova, assassinata pochi mesi fa per la medesima ragione di Anna: il coraggio di raccontare fatti scomodi al Cremlino. Ci accoglie Elena Žemkova, direttore esecutivo della sede moscovita. Sottolinea come la cecenizzazione del conflitto nel Caucaso abbia costretto pure Memorial a richiamare i suoi inviati non solo da Groznyj, ma dall’intera area interessata dalle operazioni militari. “La Russia – racconta – è un grande Paese che strumentalizza il passato contro i suoi nemici attuali: lo si vede in questi giorni nei confronti della Polonia, follemente accusata di essere la vera responsabile dello scoppio della Grande Guerra Patriottica [così i russi chiamano la Seconda Guerra mondiale, n.d.a.] così come è stato nei mesi scorsi con Georgia, Ucraina e Paesi Baltici”. Anche la sua analisi della situazione attuale della Federazione Russia è coerente e lungimirante: “sotto El’cyn sono state avviate importantissime riforme che hanno fruttato solo durante l’era Putin, che per questa ragione è giudicato dall’opinione pubblica un buon governante. In realtà, l’attuale primo ministro non ha fatto nulla per evitare una crisi economica che qui si è abbattuta maggiormente che altrove, preferendo spendere soldi per le Olimpiadi [in programma a Soči, sul Mar Nero, nel 2014, n.d.a.]”. Secondo la Žemkova, una soluzione concreta per una Russia più libera e democratica è riposta nella coltivazione della memoria e nello studio del passato, che Mosca deve affrontare responsabilmente, riconoscendo la barbarie del periodo sovietico.

L’ingresso della redazione della Novaja (condiviso con la Moskovskaja Pravda, a pochi minuti dalla fermata della metropolitana Čistye Prudy) conduce ad una sorta di museo contenente reperti vari, tra cui lo schermo utilizzato dalla Politkovskaja. Il solo pensiero che su di esso siano apparsi fiumi di parole tanto vere quanto scomode lascia alquanto colpiti se si ha a cuore la libertà di stampa. Così come si resta attoniti nell’osservare la scrivania sulla quale Anna lavorava: spoglia ed espressiva allo stesso tempo, posizionata accanto ad una piccola libreria di colore nero in cui sono riposte alcune delle letture preferite dalla coraggiosa giornalista.

Nella mensa interna alla redazione – una sorta di piccolo bar gestito da una simpatica babuška – risponde alle nostre domande Vitalij Jaroševskij, responsabile della pagina esteri. Lo fa di buon grado, lo si capisce dalla mole di informazioni che in poco tempo ci comunica.
“La guerra in Cecenia non è finita – debutta – ma, per cortesia, chiamiamola guerriglia. E non parliamo solo di Groznyj: le operazioni militari sono le medesime in Inguscezia e nel resto del Caucaso. Del resto – continua – la Russia ha sempre promosso politiche militari nel nord del Caucaso [dai tempi degli zar al periodo sovietico fino all’attuale Russia di Putin, n.d.a.] perché Mosca non sa come fare per mantenere il controllo sulla regione”. Anch’egli riflette sul tema della strumentalizzazione della storia per fini politici, individuandone la causa nella mancata condanna in Russia di Stalin, un “omicida patologico” ancora assurto a padre della patria per rinvigorire l’idea della velikaja Rossija (grande Russia). Afferma che “la politica estera russa è infantile, poiché colpisce chi non le sta simpatico. La revisione del patto Molotov-Ribbentrop è uno dei tanti eccessi del nazionalismo russo: si vuole colpire la Polonia? Allora la si presenta come alleata dei nazisti, quando invece è stata Mosca ad esserlo per due anni [dal 1939 al 1941, n.d.a.] e si tace sulla strage di Katyń [eccidio diabolicamente ed accuratamente progettato da Stalin nel 1940 per sterminare l’élite militare e culturale polacca, n.d.a.]; si vuole attaccare l’Ucraina? Allora nulla viene detto sull’Holodomor [la terribile carestia provocata da Stalin nel 1933 per sterminare migliaia di contadini ucraini, n.d.a.] e si insiste sulla collaborazione che molti ucraini prestarono ai nazisti in funzione anti-bolscevica; si vogliono colpire i Paesi Baltici? Ecco che anche loro sono esagitati nazionalisti alleati dei nazisti”.
C’è spazio infine per un pensiero sullo scudo spaziale USA in Europa Centrale, alla cui installazione l’amministrazione Obama sta, purtroppo, ripensando, preferendo il coinvolgimento di Paesi meno invisi a Mosca come Turchia ed Israele. “Innanzitutto, non vi è alcuna decisione ufficiale del Congresso circa la rinuncia al progetto in Europa Centrale. Poi, occorre riflettere sul perché della questione: se Mosca non fosse vista come un pericolo da cechi e polacchi, Praga e Varsavia non avrebbero acconsentito al dispiegamento di radar e missili americani sul proprio territorio”. Un’analisi seria, che raramente mi è capitato di registrare in tanti mesi di studio sulla questione. Sarebbe davvero opportuno che il Dottor Jaroševskij spiegasse come stanno le cose a molti benpensanti di casa nostra, che tanto si dilettano a giustificare Putin ed il suo regime. Spesso, persino dalle colonne dei principali quotidiani italiani.

Capitolo successivo del “turismo responsabile” consiste nella partecipazione al rally delle opposizioni in piazza Triumfal’naja, rigorosamente vietato dal sindaco Lužkov, noto omofobo ed antisemita. Si tratta di una manifestazione nonviolenta per la libertà di associazione in Russia, organizzata da realtà di diverso orientamento politico, dal partito Solidarnost’ – che comprende il movimento Drugaja Rossija (L’Altra Russia) di Garri Kasparov, la SPS (Unione delle Forze di Destra) ed i liberali filo europei di Jabloko – ai NazBol – i nazional-bolscevichi.
Per distrarre la folla, le autorità hanno disposto un ridicolo spettacolo di acrobazie in bicicletta proprio sotto il monumento a Majakovskij. Gia dalle 16:30 gli omon si posizionano nelle vie periferiche, pronti per la carica. Dalla piazza lungo tutta la Tverskaja ulica – quasi fino alla fermata del metro Puškinskaja – camion da cantiere vengono disposti lungo il lato della strada, ed il numero dei militari aumenta vertiginosamente. Se ne contano a centinaia. I manifestanti sono solo un’ottantina, tutti riuniti silenziosamente all’uscita della fermata del metro Majakovskaja. Tre di loro saranno prelevati dalla polizia, rei di aver intonato slogan ed esposto dei cartelli. Questa è la Russia di Putin, la Russia che non ci piace.
Così come non ci piacciono i militari in divisa grigio-rossa che impongono il silenzio dinnanzi alla salma imbalsamata di Lenin all’interno del tetro mausoleo in Krasnaja Ploščad’ (Piazza Rossa). Un monumento da visitare per capire cos’è davvero la Russia di Putin: un rinato impero che cambia la propria simbologia ma mantiene il medesimo stile del passato. Per questa ragione, AnnaViva ne fa l’ultima tappa del suo “turismo responsabile”.

Il “turismo responsabile”, appunto. Sarebbe scorretto chiudere senza spiegare cosa sia.
E’ una vacanza che supera i luoghi comuni, in tutti i sensi. Il “turista responsabile” si reca laddove è necessario attivarsi per la difesa della democrazia e dei diritti umani e civili. Armato di un semplice Iphone, ne documenta le violazioni e le trasmette alla rete istantaneamente. Dotato di taccuino e registratore mp3, da voce a chi si batte per la loro tutela, spesso contro governi autoritari. Il “turista responsabile” ama frequentare locali tipici, assaggiare la cucina del luogo, dedicarsi allo shopping e tirar tardi la sera in buona compagnia, ma con la consapevolezza di aver prima speso la propria giornata in maniera produttiva.
In sostanza, il “turista responsabile” non cerca sole, divertimenti e piaceri, ma si attiva per migliorare l’esistenza di donne, uomini e bambini privi del bene più prezioso che un essere umano in quanto tale possa – e ha diritto di – avere: la libertà.
Matteo Cazzulani

giovedì 3 settembre 2009

DANZICA 2009: RIPRENDE LA GUERRA DEL GAS

Dietro alle commemorazioni per lo scoppio della seconda guerra mondiale, i primi ministri di Polonia, Russia ed Ucraina hanno segnato un nuovo inizio della crisi del gas. Apparentemente le tensioni politiche tra Mosca, Varsavia e Kyiv si sono allentate, ma de facto la dipendenza energetica della Nuova Europa dal Cremlino è aumentata.

Il primo giorno di settembre del 2009 con tutta probabilità sarà ricordato per l’imponente commemorazione dell’inizio della seconda guerra mondiale a settanta anni esatti dal suo scoppio. Meno per la ripresa del conflitto sul gas. La compresenza a Danzica del premier polacco Donald Tusk e del primo ministro della federazione russa Vladimir Putin ha consentito un vero e proprio giro di boa nelle relazioni bilaterali tra Varsavia e Mosca. Nonché, con la visita nella tarda mattinata del Capo del governo Ucraino Julija Tymošenko, il raggiungimento di importantissimi accordi sul gas, tesi ad evitare un inverno tanto rigido dal punto di vista climatico quanto rovente da quello politico. Ma che nei fatti è un boomerang che lega ancor più fortemente Varsavia e Kyiv a Mosca.

I premier polacco e russo si sono incontrati a Sopot (cittadina confinante con Danzica) nella mattinata del primo settembre 2009 a margine della commemorazione internazionale dello scoppio della seconda guerra mondiale. Come illustrato dal polacco Tusk, l’incontro è stato caratterizzato da un clima di “pace e collaborazione” volto a riavvicinare due Paesi tra i quali il dialogo è storicamente arduo e complicato. Una “situazione assurda”, poiché “una pronta intesa è stata raggiunta tra Varsavia e Berlino e tra Mosca e Berlino, ma è alquanto bizzarro che ciò non sia stato possibile anche tra polacchi e russi”.

In primis, è stato affrontato il problema dell’interpretazione storica del patto Molotov-Ribbentrop, con cui la Germania nazista e la Russia comunista de facto si accordarono per una quarta spartizione della Polonia nel settembre del 1939, provocando lo scoppio della seconda guerra mondiale. Nei giorni scorsi, Mosca ha accusato la Polonia di aver stretto un presunto accordo segreto con Hitler in funzione anti-russa, addossando su Varsavia l’intera colpa dell’inizio del conflitto, nonché l’infame – quanto infondata – accusa di essere scesa a patti con quel terzo reich che predicava la superiorità della razza ariana sugli slavi. Dopo aver dichiarato che il suo Paese “ha considerato sempre i polacchi come fratelli nella lotta al fascismo” [forse intendeva “sudditi”, n.d.a.], Putin ha riconosciuto l’esistenza di differenti interpretazioni della storia che, tuttavia, non devono interferire in un rapporto politico tra i due stati “notevolmente migliorato nel corso degli ultimi due anni”. In virtù di questa dichiarazione di intenti, il primo ministro russo aprirà ai polacchi gli atti URSS riguardanti la stage di Katyń: un eccidio diabolicamente ed accuratamente progettato con cui Stalin sterminò grandissima parte dell’élite militare e culturale polacca. Tusk ha dichiarato di considerare le dichiarazioni di Putin “molto seriamente” ed ha proposto la creazione di una apposita commissione polacco-russa sulle questioni calde del passato, affinché “i nostri Paesi non potranno più utilizzare la storia l’uno contro l’altro”.
Piccola, quanto doverosa concessione di Putin è stata la firma dell’accordo sulla navigazione nell’estuario della Vistola. Finalmente, Mosca ha accettato la riapertura delle acque territoriali al largo dell’enclave di Kaliningrad alla navigazione delle imbarcazioni polacche, vietata dopo l’ingresso di Varsavia nell’UE. Tale decisione – una ritorsione politica – costringeva le navi non russe dirette al porto di Elbląg ad assurde manovre per aggirare il tratto di mare controllato dalla marina militare del Cremlino.

Tuttavia, la questione più significativa del vertice è legata al gas, tema “che deve essere staccato da connotazioni politiche” come auspicato da Tusk. Speranza disillusa. Abilmente, Mosca si è dichiarata “pronta come in passato a rifornire la Polonia di tutto il gas a lei necessario”. Ovvero di quei 2 miliardi di metri cubi che Varsavia acquistava dalla compagnia svizzera – ma legata a Gazprom – RosUkrEnergo (RUE) prima che Kyiv fosse costretta a rescindere con essa il contratto per le forniture a seguito dell’ultima crisi dello scorso inverno, quando Mosca – per ritorsione alla legittima quanto storica vocazione europea ed occidentale dell’Ucraina – chiuse i rubinetti e pretese dal vicino il pagamento di un prezzo più alto rispetto a quello stabilito da precedenti accordi. La decisione di Varsavia di acquistare gas dall’Ucraina è stata dettata dalla necessità di diversificare le forniture, stabilendo inoltre un tetto alla quota di importazione diretta dalla Russia. Tuttavia, “se la Polonia vorrà alzare questo limite si dovranno rivedere gli accordi bilaterali. Una questione puramente tecnica” come dichiarato da Putin, ma che in realtà nasconde un lungimirante calcolo politico.
Già negli scorsi mesi la polacca PGNiG (Polskie Górnictwo Naftowe i Gazownictwo) ha chiesto a più riprese a Gazprom un aumento delle forniture, ottenendo come risposta la pretesa di rivedere le quote di partecipazione in EuRoPol Gaz, società proprietaria del gasdotto che rifornisce la Polonia: finora, Gazprom e PGNiG ne possiedono il 48% ex aequo; il restante 4% appartiene all’azienda Gas-Trading, a sua volta partecipata per il 43,4% da PGNiG, per il 16% da Gazprom e per il 36% da Bartimpex, il più importante partner dei russi in Polonia. Gazprom vuole fortemente incrementare la sua presenza in EuRoPol Gaz al 50%, arrivando così alla maggioranza delle azioni della società se si considera lo schiacciante predominio di Gazprom-Bartimpex in Gas-Trading.

Più semplicemente, il Cremlino vuole il possesso dei gasdotti polacchi. Per questo ha sempre respinto ogni proposta di Varsavia di suddividere la società proprietaria del gasdotto unicamente tra PGNiG e Gazprom al 50% ciascuno, eliminando il terzo partner. E per questo Putin si è sempre opposto alla costruzione di un secondo gasdotto russo-polacco – previsto da precedenti accordi firmati nel 1993 con l’allora capo del governo Jerzy Buzek (oggi presidente del Parlamento Europeo) – preferendo sviluppare il progetto Nord Stream, antieuropeo ed ecologicamente pericoloso ma benedetto dalle cancellerie occidentali – Berlino, Roma e Parigi in testa – che lungo il fondale del Baltico dal 2012 rifornirà direttamente la Germania, saltando Paesi sul piano politico ragionevolmente ostili a Mosca, quali Svezia, Polonia e Stati Baltici.

Oltre che con Varsavia, Putin ha stretto patti “gasati” anche con Kyiv. Giunta a Sopot nella tarda mattinata, il premier ucraino Julia Tymošenko ha rinnovato gli accordi di fornitura di oro blu con Gazprom, ottenendo in cambio la possibilità di pagare soltanto il gas effettivamente consumato e non dell’intera quantità stabilita per contratto come in passato. La ratifica avrà luogo il prossimo ottobre nella città ucraina di Char’kiv in occasione della riunione del Comitato di Collaborazione Economica, a cui il primo ministro russo è stato appositamente invitato.

Tutti gli Stati che un tempo erano inclusi nel Patto di Varsavia sono fortemente dipendenti da Mosca per il gas. La Polonia lo è all’89%; l’Ucraina quasi totalmente. Tuttavia, occorre che i governanti di questi Paesi siano ben più lungimiranti rispetto ai loro colleghi dell’Europa Occidentale ed impediscano la svendita dei gasdotti al Cremlino, la cui sopravvivenza economica è legata unicamente al gas, arma utilizzata per ristabilire il dominio moscovita su quell’”estero vicino” che legittimamente e in maniera sovrana ha preferito l’occidente, la NATO e l’UE.
Un misero sconto sul prezzo dell’oro blu non può essere accettato a costo dell’indipendenza da un impero risorto con tutta la sua furbizia aggressiva, che minaccia un’Europa ancora colpevolmente ignara sul pericolo che esso rappresenta.
Matteo Cazzulani

venerdì 28 agosto 2009

GLI USA RINUNCIANO ALLO SCUDO SPAZIALE IN POLONIA E REPUBBLICA CECA

Con tutta probabilità, Washington rinuncerà in via definitiva al dispiegamento degli elementi di difesa missilistica in Europa Centrale. Nonostante gli accordi fossero già stati ratificati dalle parti in causa più di un anno fa.

E’ stato il quotidiano polacco Gazeta Wyborcza a dare per primo la notizia lo scorso mercoledì 26 agosto, riportando le dichiarazioni di Riki Ellison, direttore del progetto di difesa antimissilistica USA. Secondo l’esponente statunitense – una fonte attendibile stando al parere degli esperti – “i segnali inviati dai generali del Pentagono sono assolutamente chiari: l’attuale amministrazione preferisce percorrere altre strade per la difesa missilistica rispetto all’installazione di basi in Polonia e Repubblica Ceca”.

La scorsa settimana, Ellison ha preso parte a Washington ad una conferenza stampa nella quale il Pentagono ha illustrato i suoi piani futuri sulla questione, de facto modificando il percorso precedentemente intrapreso dall’amministrazione Bush, che tra l’aprile e l’agosto 2008 ha concluso con tanto di firma i relativi accordi con Praga e Varsavia.

Come ha spiegato Ellison, l’amministrazione Obama intende installare la postazione radar e le batterie di missili patriot su apposite navi militari nel Mediterraneo, oppure, preferibilmente, in altri Paesi alleati quali Turchia e Israele. Inoltre, sarà individuata un’ulteriore ubicazione nei Balcani sulla quale Ellison non avanza ipotesi.

Sebbene al momento del suo insediamento il presidente Obama aveva dichiarato che la strategia di difesa missilistica USA non sarebbe cambiata, tale dietrofront non rappresenta affatto una sorpresa. Già da tempo Washington temporeggiava sulla questione, al punto che la scorsa estate la risoluzione a riguardo è stata approvata dal Senato a strettissima maggioranza soltanto grazie al voto compatto dell’opposizione repubblicana e di parte della maggioranza democratica. Come sottolinea Ellison, nel mese di settembre la questione avrebbe dovuto essere esaminata dal Congresso, rischiando una ripresa della vita politica ancor più tormentata di quanto già non sia a causa della riforma sanitaria, che coraggiosamente Barack Obama sta realizzando nonostante una fortissima opposizione, anche in seno al suo stesso schieramento politico.

Tuttavia, la vera ratio della nuova strategia della Casa Bianca è principalmente legata alla politica estera. L’esponente USA indica come “la nuova squadra considera maggiormente gli argomenti della Russia. E’ una questione di priorità. Per molti democrats prioritario è un accordo sulla riduzione degli armamenti strategici con Mosca. Ma ciò non significa che essi siano più molli ed ingenui, solo che l’amministrazione Obama intende negoziare e cambiare la sua posizione nei confronti della Federazione Russa” dopo l’inasprimento della presidenza Bush.

Inoltre, sottolinea sempre Ellison, decisivo è stato anche l’altissimo costo dell’operazione, per intero a carico di Washington.

A più precise domande riguardo alle conseguenze che tale rinuncia apporterà alle relazioni tra Washington ed i Paesi firmatari del precedente progetto – Repubblica Ceca e Polonia – Ellison ha ribadito come l’amministrazione Obama ritenga la nuova via migliore sotto diversi punti di vista. In particolare, ha ribadito come lo scopo dello scudo spaziale sia quello di difendere il mondo occidentale da possibili attacchi missilistici provenienti da Iran e Corea del Nord. Dal punto di vista tecnico, lo spostamento degli elementi dall’Europa Centrale ad Israele ed alle penisole anatolica e balcanica non comporta alcun mutamento, sebbene gli stessi generali del Pentagono lo scorso anno in fase di trattativa a più riprese abbiano riconosciuto proprio Polonia e Repubblica Ceca come le ubicazioni ideali per la postazione radar e la batteria patriot.

Infine, Ellison ha sottolineato come buona parte del fallimento del progetto iniziale sia da addossare ai governanti polacchi, poiché qualora Varsavia avesse firmato con maggiore anticipo l’accordo con Washington, oggi l’amministrazione Obama si sarebbe trovata dinnanzi ad un progetto già avviato. Le trattative con la presidenza Bush sono state iniziate col governo del nazionalista Jarosław Kaczyński e continuate con l’attuale maggioranza del liberale Tusk, che in quanto filo europeo ha comprensibilmente temporeggiato in cerca di un maggior coinvolgimento dell’UE al progetto, accettando infine la sigla dell’accordo una volta constatata l’inconsistenza della politica estera di Bruxelles dinnanzi all’aggressione russa alla Georgia dell’agosto 2008.

Ricercando un maggior dialogo con Mosca, Washington ha concesso alla Russia la possibilità di considerarsi la vera vincitrice della questione, essendo stata la causa principale del cambiamento di strategia USA, de facto influendo nelle sue scelte in politica estera e nel rapporto con i suoi alleati.

Barack Obama finora ha dimostrato grande capacità politica e lungimiranza in altri ambiti – riforma sanitaria in primis. Resta la speranza che la sua nuova strategia estera non comprometta il ruolo che gli USA – assieme all’UE – dovrebbero avere nel mondo: diffondere e difendere la democrazia nel mondo, ovunque sia necessario. Preferibilmente con l’invincibile arma della nonviolenza.
Matteo Cazzulani

LA VERA CINA CHE SI AVVICINA

Opportunità per futuro, tecnologia, commercio e turismo. Così il Celeste Impero che fu viene presentato dalla maggior parte delle cancellerie e dei media occidentali. In realtà, si tratta di una delle ultime dittature comuniste del pianeta che copia le nostre innovazioni, reprime ogni forma di dissenso interno – ed anche esterno – e si fa beffe degli accordi internazionali.

Cina: repubblica popolare di 9.575.388 chilometri quadrati abitata da circa 2 miliardi di persone, di cui 24 mila addensate negli agglomerati urbani delle due maggiori città, Pechino e Shanghai. Se a questa descrizione geografica si aggiunge la presenza di siti culturali di notevole importanza turistica ed archeologica (come la Grande Muraglia ed il Monastero Sospeso nei pressi di Datong) e di una cucina apprezzata in tutto il mondo, è comprensibile come questo Paese possa attirare l’attenzione non solo di un qualsiasi viaggiatore – magari un poco distratto – in cerca di destinazioni esotiche per le proprie vacanze, ma anche di più attenti industriali, imprenditori ed affaristi in cerca di profitti e di nuovi mercati.
Inoltre, se si considera la straordinaria crescita economica dell’ex Celeste Impero, dovuta all’investimento del surplus del mercato interno nell’acquisto di fonti di energia e di materie prime in Asia ed Africa e nell’acquisto di pesanti quote di grandi imprese in Europa, si capisce come Pechino – titolare di un seggio permanente alle Nazioni Unite e novella protagonista della corsa allo spazio – sia già una potenza mondiale con la quale ogni Stato deve giocoforza fare i conti in ambito internazionale.

Tuttavia, tale descrizione idilliaca stride non di poco con la effettiva realtà del Paese, documentabile se in Cina ci si reca per una decina di giorni e si presta attenzione non solo alle mete turistiche di grande richiamo, ma anche alla quotidianità e agli usi ivi in voga.
Tralasciando lo sgradevole odore (un misto tra carne fritta andata a male e rifiuti organici) che si può assaporare durante i primi giorni di soggiorno presso un albergo ubicato nel mezzo degli hutong (tipiche stradine spesso non asfaltate) della capitale e l’abitudine degli autoctoni a sputare pubblicamente – solo uno stolto non capirebbe che sono tratti tipici di ogni cultura, pertanto non assumibili come dato per valutare il grado di maturità di una civiltà – subito si è colpiti dalla straordinaria densità della popolazione, perlopiù riversata nelle (per noi europei) enormi strade con mezzi di ogni genere: da automobili di bassa lega e motocicli elettrici a biciclette con annesso carrettino stracolmo di merce e di generi alimentari.
Percorrendo tragitti non turistici impressiona poi la folta presenza di toilette pubbliche – necessarie quando nella propria abitazione non si possiede il bagno – e di abitazioni in rovina che si affacciano su marciapiedi sporchi a causa degli ammassi di spazzatura (altro che il caso Napoli). Per strada spesso si è fermati da povera gente intenzionata a vendere qualsiasi tipo di merce pur di guadagnare qualche soldo da un “ricco” occidentale; simile scena si ripete nei numerosissimi centri commerciali di Pechino, dove venditori letteralmente assatanati assalgono ogni turista per rifilargli prodotti chiaramente contraffatti anche a prezzi notevolmente ribassati rispetto alla proposta iniziale – in Cina la contrattazione è un abitudine.
Subito ci si chiede come ciò sia possibile in un Paese comunista che in quanto tale distribuisce i beni “a ciascuno secondo i propri bisogni”.

La contraffazione, appunto. E’ proprio questo il punto di maggiore forza della Cina che cresce e che si impone nell’economia mondiale. A dispetto di quanto si possa immaginare – specie se si considera la grandissima abilità degli astronomi del Celeste Impero – i cinesi sono un popolo poco incline all’invenzione, handicap colmato con l’estrema abilità nel copiare ogni sorta di prodotto fabbricato da quelle popolazioni più evolute nel settore come noi occidentali. Ciò non riguarda soltanto l’ambito del vestiario – peraltro nei centri commerciali si trovano perlopiù goffe imitazioni di capi firmati – ma anche e soprattutto quello tecnologico. Significativa è stata la conversazione avuta con un giovane studente a Shanghai, il quale mi ha presentato il treno superveloce che conduce i passeggeri dall’aeroporto alla metropolitana ad altissima velocità sospeso sulle rotaie come “una pietra miliare dell’industria del Paese di tecnologia tedesca ma di produzione cinese”. In sostanza, copiata dall’industria teutonica.
Furbi loro ad imitare ciò che gli altri concepiscono. Ed altrettanto meschini nel rivendere il medesimo prodotto a prezzi inferiori grazie al basso costo di una manodopera costituita da lavoratori letteralmente schiavizzati e sottopagati, a cui le più elementari garanzie sindacali non sono affatto garantite. Ancora una volta, ci si chiede come questo sia possibile in un Paese comunista.

Volgendo all’ambito politico, molto altresì può essere compreso dalla sola visita delle mete turistiche della capitale, ad esempio la celebre Piazza Tian’ An Men. Comprendere l’estensione della piazza e l’atmosfera che in essa si respira è semplice se già si è stati a Mosca, poiché si tratta di una Krasnaja Ploščad’ (Piazza Rossa) un poco più corta e molto più afosa: ovunque sono presenti uomini delle forze dell’ordine in rigido stato di guardia, appostati in vari punti in squadre di mai meno di due unità; la simbologia del potere comunista è celebrata dal ritratto di Mao Zedong sul lato sud e dalle numerose bandiere rosse issate qua e la nei pressi del mausoleo del sopra citato autore della rivoluzione popolare (diversamente, in Russia il nuovo regime putiniano ha rimpiazzato i vessilli dell’URSS con l’aquila bicipite di eredità zarista. Cambia l’apparenza ma non la sostanza). Se si vuole visitare la piazza al suo interno, occorre superare una accurata perquisizione con tanto di controllo al metaldetector dei propri zaini e borse. Capita anche qui di incontrare qualche coraggioso mendicante, subito allontanato in malo modo dalla polizia: la povertà – ergo la reale condizione della Repubblica Popolare cinese – non va mostrata in pubblico, specie laddove si celebra la “grande” Cina e dove i “ricchi” occidentali possono osservare. E, magari, documentare e riflettere.
Nella Città Proibita, la miriade di turisti può sostare per qualche minuto presso l’ingresso principale intrattenuta da esercitazioni militari dell’esercito cinese presso i campetti da pallacanestro all’interno del sito turistico – si, avete letto bene: all’interno della Città Proibita ci sono dei campi da basket! –. Da non perdere, se si ha un po’ di tempo, l’alzabandiera della durata di trenta minuti circa.
Anche in siti turistici meno affollati il regime non lesina a dare mostra della sua “grandezza”. Nel mezzo del semicentrale parco Ri Tan si può assistere alle medesime parate militari di cui sopra senza il fastidio di essere spintonati da cinesi ansiosi di immortalare il proprio “grande” esercito e di applaudire alla loro abilità, rigorosamente armati di bandierina della Cina comunista precedentemente acquistata da un bagarino.
La situazione non cambia a Shangai. Nel centralissimo museo cittadino in Piazza Renim (Piazza del Popolo) l’entrata è gratuita. Fattore degno di plauso se solo lo spettacolo offerto non fosse l’ennesima celebrazione della “grandezza” della Cina Popolare, questa volta nelle arti e nella cultura. Le “culture delle minoranze nazionali” abilmente sono relegate in una stanzetta al terzo – ed ultimo – piano dell’edificio, casualmente chiusa da mesi per imprecisati lavori di manutenzione. Così, lo studente cinese in visita al più importante museo di arte del suo Paese può uscire con la consapevolezza che in Cina non esiste né una cultura uigura, né un popolo tibetano, né la presenza di altre religioni come Islam, ebraismo e cristianesimo al di fuori del buddismo, dell’induismo e del confucianesimo. E, ovviamente, dell’ateismo di Stato, imposto dal regime comunista.

A proposito dei musei, ecco la questione che più di tutte esemplifica l’atteggiamento cinese nei confronti della comunità internazionale. In tutto il mondo, presso i siti turistici, i musei, le biblioteche, quando non persino nelle biglietterie ferroviarie (come nella Polonia tanto criticata da molti tra i benpensanti nostrani) è riconosciuta la ISIC (International Student Identity Card), un documento UNESCO che permette ad ogni studente universitario del mondo un sensibile – e giusto – sconto. Ebbene, in Cina tale certificazione non viene riconosciuta; altresì è ammesso solo il biglietto studentesco cinese. E quando alla cassa si fa presente che l’ISIC è un documento rilasciato dall’ONU, in cui Pechino è membro permanente e si permette di porre veti su questioni di vitale importanza per il nostro pianeta – spesso concordi con gli amichetti russi – raramente si riesce a vedere riconosciuto il proprio diritto allo sconto. E’ davvero sconcertante constatare come la Cina si rifiuti di rispettare patti siglati a livello internazionale. Ed è ancor più fastidioso registrare come altri accordi siglati nel medesimo ambito – l’ONU – vengano pretesi, quando non imposti alla comunità internazionale da tali personaggi. Se in queste piccole situazioni Pechino si atteggia in questa maniera, facilmente è immaginabile quanta considerazione abbia del diritto e delle convenzioni internazionali.

Infine, due righe sulla libertà di espressione. Scontato registrare l’assenza di voci libere ed indipendenti non allineate col regime comunista sia sulla carta stampata che nelle televisioni locali, dove (come in Russia del resto) i quotidiani ed i telegiornali consacrano larghissimo spazio alla propaganda del governo, illustrando quanto di buono attuato giornalmente dalla Repubblica Popolare.
Tuttavia, oltre alle voci interne al Paese sono zittite anche quelle straniere. Social network come Twitter, Facebook e YouTube sono censurati, ed ad essi è davvero impossibile accedere. Persino i blog privati sono oscurati, così come alcuni siti di informazione come Radio Free Europe e Reuters. Solo Google funziona senza problemi, avendo accettato controlli e restrizioni imposti da Pechino. Dinnanzi a tale isolamento, comunicare con il mondo è proibitivo. E così, solo una volta tornati in occidente si ha la possibilità di raccontare quanto accade laggiù e che cos’è veramente la Repubblica Popolare cinese.

Si tratta di uno Stato autocratico che guadagna prestigio e potenza in campo economico e politico anno dopo anno. Una dittatura comunista, che malgrado il suo spiccato attivismo sulla scena del capitalismo mondiale, così come l’URSS di ieri – e la Federazione Russa di oggi – reprime i dissidenti, annichilisce i giornalisti ed onora gli accordi internazionali soltanto quando sono per essa vantaggiosi. Uno Stato socialmente lacerato da una ristretta nomenklatura di regime che possiede tutte le ricchezze, e da una massa di poveri, tenuta nell’ignoranza, nella povertà e in disperate condizioni igieniche.

Personalmente, come presidente di AnnaViva mi batto nel quotidiano per lo sviluppo della democrazia e per il rispetto dei diritti umani nel mondo ex-sovietico, soprattutto nel Caucaso e nella Russia di Putin, dove dissidenti e giornalisti indipendenti sono quotidianamente vittime di vessazioni e violenze di ogni genere. E’ una battaglia di civiltà, che riguarda la libertà di popoli a me cari dalla grandissima tradizione letteraria e culturale,.
Tuttavia, visitata la Cina sono ancora più consapevole che questo mio impegno ha un valore globale. E che sta all’Occidente – Unione Europea e Stati Uniti – difendere questi valori fondanti della dignità umana. Magari, con la creazione di una Lega delle Democrazie che per mezzo dialogo e della nonviolenza possa nel più breve tempo possibile garantire ad ogni cittadino di ogni Paese del pianeta dignità, benessere e libertà.
Matteo Cazzulani

martedì 11 agosto 2009

ALTRI DUE ATTIVISTI DEI DIRITTI UMANI UCCISI IN CECENIA

Un martedì di metà agosto. Consulto la mia quotidiana lista di agenzie di informazione – rigorosamente estere – e leggo quanto non vorrei: ennesimo omicidio di attivisti per i diritti umani in Cecenia, a circa una mese dall’uccisione di Natalia Estemirova. Si tratta della direttrice dell’ONG “Salviamo la Generazione” Zarema Sadulajeva e del marito Alik Džabrailov.

Così come accaduto alla Estemirova, i coniugi sono stati rapiti a Groznyj (capitale della Cecenia) nella giornata di lunedì 10 agosto 2009 da due uomini vestiti di nero presentatisi come “rappresentanti delle strutture del potere”. I corpi dei due 33enni, crivellati da colpi di arma da fuoco, sono stati ritrovati nel bagagliaio della loro automobile a Černoreč, non lontano dal luogo del rapimento.

La notizia è stata comunicata ai microfoni di Radio Echo Moskvy da Aleksander Čerkasov, portavoce di Memorial (l’organizzazione per i diritti umani presso cui lavorava la Estemirova), ed è stata confermata dal ministero dell’interno russo.

Mi chiedo, semplicemente, quando finirà tutto questo? Non intendo solo la continua moria di giornalisti e di attivisti per i diritti umani in una Russia sempre più autocratica.

Ma anche, soprattutto, l’indifferenza di questo occidente troppo legato al gas e agli interessi dei soliti colossi energetici. Leggi ENI, Ruhrgas, E.On, GDF Suez e Gasunie: le nuove aquile nere che impongono alle cancellerie occidentali dei rispettivi paesi – Italia, Germania, Francia e Olanda – di ignorare principi fondanti della civiltà occidentale come la tutela della democrazia ed il rispetto delle libertà dell’individuo, sacrificandoli in nome dei buoni rapporti con una Mosca sempre più imperiale, che per mezzo dell’arma Gazprom si è già garantita la nostra dipendenza energetica, e parte dei nostri gasdotti.
E pazienza se l’UE non parla ad una voce sola e se i nostri fratelli della “Nuova Europa” rischiano nuovamente di rimanere al freddo e di ritornare sotto l’incubo del dominio sovietico. Sono sogni e fatti di una storia che sentiamo estranea e lontana, presi come siamo dall’ultimo colpo di mercato e dall’ultima nomination del Grande Fratello.

Matteo Cazzulani

sabato 8 agosto 2009

QUALCHE CONSIDERAZIONE PERSONALE SULLA GUERRA IN GEORGIA DI UN ANNO FA

Era esattamente un anno fa, l’8 agosto 2008. Danzica, meravigliosa città del Baltico tradizionalmente multi culturale (polacca, tedesca, teutonica, casciuba), nonché importantissimo centro urbano per la storia dell’Europa centrale: neutrale in svariate riprese – la più nota, prima del secondo conflitto mondiale –; porto teutonico prima e polacco poi; principale località della Prussia Reale – provincia indipendente della gloriosa Respublica polacco-lituana che fu – e, soprattutto, luogo in cui hanno sede i famosissimi cantieri navali, vero e proprio simbolo della battaglia polacca per la libertà dall’oppressione comunista, culminata con la “tavola rotonda” e le elezioni semilibere del 1989, vinte dal sindacato indipendente Solidarność.

Ed è proprio nella sede centrale di Solidarność (ubicata a pochi minuti dai cantieri navali sopra citati) che per me tutto cominciò. Mi ci trovavo in visita “ufficiale” per stringere rapporti di collaborazione con AnnaViva, l’associazione di cui sono tuttora presidente. Ben presto, l’incontro diventò molto cordiale, grazie soprattutto alla gentilezza del mio interlocutore Mateusz S. (mio omonimo di cui non cito il cognome in quanto compongo questo pezzo senza averlo potuto avvisare) che, appresa la mission dell’associazione, stupito dal mio polacco, ed ancor più dal titolo della tesi di laurea triennale che mi apprestavo a redigere (sulla Respublica Polacco-Lituana, di cui sempre sopra) mi permise l’accesso ad una mole di testi da fotocopiare nel mentre della conversazione.
All’improvviso, dalla radio la notizia di scontri armati in Georgia: l’esercito russo aveva violato l’integrità territoriale del vicino, occupando le repubbliche separatiste dell’Abkhazja e dell’Ossezia del Sud, nelle quali da moltissimi anni ormai il Cremlino distribuiva passaporti russi tra la poverissima popolazione locale con l’obiettivo di destabilizzare l’area e provocarne la secessione da Tbilisi.

Era iniziata la “Guerra dei Cinque Giorni”, che comportò, stando alle diverse fonti, 228 vittime georgiane, 168 ossete e 67 tra i soldati russi. Secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato lo scorso giovedì 6 agosto, trenta mila sono gli sfollati, in larghissima parte georgiani. L’esercito di Mosca occupò buona parte del territorio georgiano, giungendo a pochi chilometri dalla capitale Tbilisi.

La tragica evoluzione del conflitto la seguii grazie ai media polacchi, assai più attenti e consapevoli della gravità della situazione rispetto a quelli italiani, intenti a riempire le prime pagine dei giornali con risultati e commenti sulle concomitanti Olimpiadi di Pechino.
Tale differente approccio lo riscontrai anche tra la popolazione. In Polonia, così come nel resto dei Paesi della tanto vituperata “Nuova Europa”, la rinata aggressività russa provocava un senso di inquietudine, ampiamente comprensibile se si tiene conto della storia di queste terre, a lungo soggiogate all’impero russo di matrice zarista, comunista e putiniana. Diversi i pareri che registrai – tra i quali quello dello stesso Mateusz di Solidarność – nei quali si sottolineava come l’aggressività oggi dimostrata nei confronti della Georgia domani avrebbe potuto essere rivolta verso Ucraina e Bielorussia, peraltro già vittime ogni inverno dei ricatti energetici di Mosca sul prezzo del gas e diretti vicini di Varsavia. Che, piaccia o meno ad alcuni benpensanti nostrani, appartiene politicamente, storicamente e culturalmente all’Unione Europea.

A porre fine al conflitto, ufficialmente fu l’intervento diplomatico dell’UE, che per mezzo dell’allora presidente di turno Nicolas Sarkozy negoziò un accordo di pace secondo cui l’esercito russo avrebbe dovuto abbandonare i territori occupati. L’atteggiamento dell’inquilino dell’Eliseo fu, però, troppo morbido, diversamente da quanto richiesto dai presidenti di Polonia, Paesi Baltici ed Ucraina, ben più solidali col collega georgiano Saakašvili: Mosca fu solo redarguita verbalmente, e così si sentì legittimata a ritirare i propri eserciti dalla Georgia con tutta calma, riposizionandoli nelle repubbliche separatiste dell’Abkhazja e dell’Ossezia del Sud. Che, più tardi, dichiararono la propria indipendenza, ad oggi riconosciuta dalle sole Federazione Russa e Nicaragua. Inoltre, NATO ed UE ignorarono le legittime aspirazioni di Tbilisi ad entrare nella comunità euroatlantica per sottrarsi all’imperialismo russo e per svilupparsi sul piano politico ed economico, e ristabilirono piena collaborazione con Mosca come se nulla fosse successo.

Ad un anno dall’accaduto, la partita non è ancora chiusa. Lo hanno dimostrato le celebrazioni in commemorazione della “Guerra dei cinque giorni” ad un anno dal suo scoppio, organizzate sia in Georgia che in Ossezia Meridionale.

A Tbilisi, per qualche minuto la vita quotidiana si è fermata. In tutte le chiese le campane hanno suonato a lutto, e nella strada principale della capitale si è riversata una folla con bandiere georgiane e dell’UE e con striscioni con scritte quali “Stop alla Russia” e “Basta con l’occupazione russa”.
A Gori, città bombardata incessantemente per qualche settimana dai russi al pari delle altre quaranta cittadine della regione, nella piazza centrale sono state incollate su appositi pannelli fotografie che ritraggono non solo i volti delle vittime e degli sfollati, ma anche i danni materiali causati dall’invasione russa: case abbattute, campagne saccheggiate, strade dissestate.
Nei cimiteri sono stati accesi i “fuochi dell’unità umana”, a sottolineare come la morte violenta sia una tragedia che supera le differenti appartenenze nazionali.
La sera, in entrambe le città sono stati organizzati dei concerti dal titolo “Per l’occupazione russa”, ai quali il presidente Mikheil Saakašvili ha invitato il corpo diplomatico occidentale accreditato in Georgia.

Anche a Cchinvali, capitale dell’Ossezia del Sud, il conflitto è commemorato per cinque giorni (tanto quanto è durata la guerra). Tuttavia, il presidente della repubblica separatista Eduard Kokojtyj e quello della Federazione Russa Dmitrij Medvedev sono concordi nel monopolizzare l’attenzione delle celebrazioni sulla responsabilità georgiana dell’accaduto, addossando a Tbilisi non solo la responsabilità dello scontro, ma anche continue provocazioni che in questi giorni avrebbero avuto luogo per riaprire la contesa.
Peccato che tali, presunte provocazioni georgiane siano state smentite in toto da alcuni media indipendenti come Radio Free Europe e dagli stessi osservatori UE – a cui l’ingresso in Ossezia del Sud è continuamente vietato dall’esercito del Cremlino – i quali hanno riportato come a rialzare la tensione in questi giorni siano stati i militari di Mosca con continue incursioni in territorio georgiano.

Tali fatti sono stati confermati anche in via ufficiale da personalità del governo di Tbilisi. L’ambasciatore polacco in Polonia Konstantin Kavatardze ha dichiarato che la Russia intende provocare un altro conflitto con la Georgia, e si è appellato alla Comunità Internazionale affinché impedisca la riedizione del conflitto. Il presidente Mikheil Saakašvili in un’intervista alle televisioni BBC e Imedi ha dichiarato che “Mosca sta continuamente violando il diritto internazionale e l’integrità territoriale georgiana”, specificando nuovamente che “l’ingresso nella NATO del [suo, n.d.a.] Paese è fondamentale per evitarne la disintegrazione e la capitolazione per mano del vicino russo”.

Richieste che nuovamente rischiano di essere ignorate dall’Europa occidentale, troppo impegnata a firmare accordi energetici con l’orso russo e a varare nuovi gasdotti che accentuano la nostra dipendenza energetica da Mosca.
E pazienza se la Georgia, il Caucaso, l’Ucraina e la Bielorussia non ce la faranno a sottrarsi dall’impero russo. Sono territori la cui comunanza – quando non vera e propria appartenenza nel caso di Kyiv e Minsk – con la cultura europea poco importa ad un popolo di allenatori, veline ed aspiranti inquilini del “Grande Fratello”.
Matteo Cazzulani