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lunedì 21 giugno 2010

NO ALL'UNIONE DOGANALE. MOSCA TAGLIA IL GAS A MINSK


Medvedev ordina, Miller esegue. E Gazprom chiude i rubinetti del gas diretto in Bielorussia. Come promesso dall'inquilino del Cremlino, l'ennesimo ricatto, in salsa russa, ma con la precisione di un orologio svizzero, è iniziato puntuale, alle 10 del mattino di lunedi, 21 giugno. Inizialmente, le forniture di oro blu subiranno un taglio del 15%, per poi incrementare fino all'85%.

Tale decisione, almeno ufficialmente, è stata presa dopo che le trattative per la revisione dei costi si sono arenate. Successivamente all'ultima guerra del gas tra i due Paesi, avvenuta nel 2006, Mosca ha alzato la bolletta imposta a Minsk da 150 a 169 dollari per metro cubo. Un tarriffario, livellato agli standard europei, che la Bielorussia, economicamente fragile a causa della crisi economica mondiale che ancora la attanaglia, non riesce ad onorare.

A più riprese, Minsk ha richiesto dapprima il ripristino del prezzario inizale, poi ha limato la somma e limitato le pretese. Ottenendo, tuttavia, la totale chiusura di Gazprom. Per questa ragione, ha continuato a pagare secondo il vecchio tariffario, accumulando un enorme debito che, al primo di maggio, ha sforato i 192 milioni di dollari. Stando ai calcoli di Mosca, a fine anno potrebbe aumentare fino a 500-600 milioni.

"Il termine è scaduto - ha dichiarato il capo del monopolista russo Gazprom, Aleksej Miller - abbiamo concesso alla compagine bielorussa cinque giorni per regolare la posizione contrattuale e saldare il debito. Dalle 10, ora di Mosca [le 9 in Bielorussia, le 8 in Italia, n.d.a.] l'invio di gas alla Repubblica di Bielorussia subirà un taglio iniziale del 15%. Poi, in progressione, fino a quando Minsk non ci corresponderà i 192 milioni di dollari dovuti".

Questioni contrattutali a parte, gli esperti del settore non hanno dubbi nel caratterizzare il nuovo taglio delle forniture come una mossa squisitamente politica, approntata per punire il presidente bielorusso, Aljaksandar Lukashenka. Infatti, le minacce di Gazprom si sono fatte sempre più forti da quando Minsk ha dichiarato la non volontà di applicare il trattato di Unione Doganale. Il quale, dal primo di luglio, dovrebbe cementare le economie bielorussa, kazaka e russa, de facto, sottoponendo le prime due ai dettami del Cremlino. Nello specifico, Mosca ambisce al controllo di industrie ed enti statali bielorussi, privatizzandoli con propri capitali, e rilevandone la proprietà come azionista di maggioranza.

Del resto, esempio dei piani di Mosca è quanto oggi accade in Ucraina, dove Gazprom sta aumentando i propri investimenti finalizzati alla fusione con il monopolista locale, Naftohaz. Un progetto, caldamente proposto alla fine di aprile dal primo ministro russo, Vladimir Putin, che la verticale del potere Janukovych-Azarov sta realizzando, malgrado esso significhi la svendita degli interessi nazionali di Kyiv. A conferma, le parole dello stesso Aleksej Miller, il quale, in più occasioni, ha dichiarato che l'attuale collaborazione tra Gazprom e Naftohaz è solo la prima tappa di un processo che culminerà con la fusione dei due colossi. In cui, tuttavia, alla compagine ucraina non resterà che il 6% delle azioni, de facto figurando come socio di minoranza, pressoché inpossibilitato ad influire nelle decisioni più importanti del nuovo supermonopolista.

Lungimirante, e chiara, è l'interpretazione del direttore del centro dei programmi energetici Nomos, Mykhajlo Honchar, il quale ha spiegato che presidente e governo, nonostante il ruolo da essi ricoperto, stanno operando unicamente per favorire gli interessi economici dei pochi, grandi oligarchi dell'estremo est del Paese, sponsor del Partija Rehioniv [la forza politica di Janukovych e Azarov, n.d.a.] e vicini a Mosca, che considerano la scomparsa del monopolista ucraino come una concreta possibilità di lauti guadagni.

"Il Gabinetto dei ministri, e lo stesso Janukovych - ha dichiarato - sono chiaramente orientati in direzione dei piccoli gruppi di interesse, che dalla scomparsa di Naftohaz possono accumulare richezze. Inoltre, per questi oligarchi del gas, dal punto di vista politico notoriamente vicini all'attuale presidente, la comparsa di un nuovo monopolista rappresenta la possibilità di nuovi affari con Mosca".

Tornando alla Bielorussia, Paese economicamente in ginocchio, Minsk non ha molti margini di manovra per impedire la sottomisione al Cremlino. Una soluzione potrebbe essere un riavicinamento all'Occidente, in particolare all'Europa. Una strada che, però, costerebbe caro ad un dittatore come Lukashenka: Bruxelles ha aperto a più riprese la porta alla Bielorussia, a patto che democrazia, libertà di stampa e di parola, e diritti umani siano rispettati nel Paese. Simile risposta è stata ottenuta dal Fondo Monetario Internazionale, a cui la Bielorussia si è rivolta a più riprese.

Una seconda via, meno concretizzabile, potrebbe essere l'aiuto proveniente da altri Paesi, tra cui l'Ucraina. Recentemente, il console di Kyiv in Bielorussia, Roman Bezmertnyj, ha dichiarato la disponibilità di mediare con il Cremlino affinché le tariffe imposte a Beltransgaz siano ribassate. Inoltre, le compagnie Ukrtranshaz e Naftohaz hanno comunicato la possibilità di richiedere un aumento delle importazioni dalla Russia per rifornire, a loro volta, il mercato interno bielorusso con prezzi più convenienti.

Per ora, nonostante il taglio del gas, Minsk si oppone fermamente all'attuazione di un trattato che ne sancirebbe la totale dipendenza dal vicino russo. Il quale, ancora una volta, così come in Ucraina non esita ad utilizzare l'arma energetica per imporre la propria volontà a Paesi indipendenti che, ciò malgrado, Mosca continua a considerare come proprie colonie. Il tutto, con la complicità di un'Unione Europea inerme ed assetata, a sua volta, di oro blu. E dalla politica estera, temeraria e rinunciataria, degli Stati Uniti di Obama.

Matteo Cazzulani

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